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ANTONIO SPAGNUOLO - POETA

POESIA = ANTONIO SPAGNUOLO

 
“Le mie sere”
Le mie sere hanno il ghiaccio della solitudine
e nessun nome riesce a contenere l’anelito
del tuo sussurro , sempre più lontano e indecifrabile.
Cancellate o dissolte le parole che affollavano il tuo labbro
ritornano ombre del sogno , scintillando,
in quella lunga eternità che ci illude
al confine del cielo.
Ho inventato le curve dell’incanto
in quella strana pezzatura del pensiero
per comporre altro ritmo precario e intermittente
nel doloroso senso dell’irrequietezza.
L’immagine schizza in misteriosi segni
e mi avvolge.
ANTONIO SPAGNUOLO





UN SAGGIO DI PLINIO PERILLI PER

ANTONIO SPAGNUOLO

 

L’IMMAGINE SCHIZZA VIA DALLE FORME

Omaggio indiscutibile ad Antonio Spagnuolo

 

"L’armonia di un attimo,
che ritorni al destino…"
*

Incantati come per uno struggimento profondo, evocato
a specchio, nomato e rinominato poi con la parola,
il verbo incarnato della poesia…
Sempre così giungiamo ai testi, ai libri di Antonio Spagnuolo
(Napoli, 1931), oramai innumerevoli, solo a pensare che il
primo data 1953, ed ebbe il plauso d’un padre burbero e
benefico del nostro ’900, come Umberto Saba… S’intitolava
Ore del tempo perduto, e paradossalmente salda il cerchio
con quest’ultimissimo, felice e denso Non ritorni,
( Robin edizioni – 2016 ) in cui il poeta partenopeo arrischia un’accelerazione gnomica e una temperatura “lirica”
di altissima pregnanza epocale, e insieme, significazione,
profezia escatologica…
L’éschaton, il “fine ultimo”… Ma qual è quello profondo
della Poesia?

Urlo alle stelle il candido risvolto che corre
ai piedi della solitudine, sgomento ad ogni risveglio
oltre le trasparenze, oltre il tremore ribelle
delle molecole per ritrovare la pelle inaridita,
fossile sgranato nell’incendio della trasgressione.

L’impeto, e insieme l’affilata esattezza d’un lessico che
chiede al proprio stesso pathos ogni consenso, una sorta
d’ebretitudine celeste rimasta qui in terra a preparare
il cielo, prigioniera d’una carne che però libera
l’anima – suffragano, nobilitano da sempre l’espressionismo
lirico di Spagnuolo a categoria di Pensiero, raggiungimento
non meno intimo che metafisico:

Quasi tremante per le distorsioni di un tempo
che cerca, bruciando, inutilmente nuovi artigli,
chissà se durante il pregare non riesca
ad agguantare tutte le bugie che ho sciolto
distillando un alambicco di lacrime
senza la vergogna delle medesime ombre
o le diverse ferite nella carne scomposta.

Anche questo testo (strutturato in un proemio incalzante,
tumultuoso, infibrato di versi lunghi, ma giammai prosaico
anzi semmai ancor più fervoroso e poiètico – e due parti,
due sezioni cadenzate di stanze o meglio blocchi lirici
accesi da un ritmo trafelato d’amore eppure quasi
immobile per dono pervaso di saggezza, grazia sensibile,
credo insomma di Fede, loico e insinuante), noi amiamo
leggerlo, percorrerlo – al solito – come un unico
poemetto, un compianto vitale, poderosamente
intriso e lievitante d’affetto. Addirittura come un moderno
canzoniere dell’Amore che è stato, dunque che rimarrà
per sempre, da qui all’eternità, in domestico (id est
universale!) tempietto di parole:

Fuoco era la fretta degli spazi, leggera
nella meravigliosa tua gioventù,
quando il tuo passo toccava il balzo
dei miei timori e mi rapiva nel bacio.

Nessun uomo è un’isola – diceva John Donne – e la
campana suona sempre anche per noi… Questo suono
ci chiama, in Non ritorni, questo continuo, inesausto
coinvolgimento metafisico, ma infibrato dentro, come
un bilancio epocale e corporale nello stesso modo –
innervato (io ci credo) nei tessuti trasparenti o nascosti
ed esemplari del Puro Spirito, temprato d’esistenza!

Ogni ritorno ha il sapore del mare,
ma tu non torni, sei ansia
che di nascosto adombra il mio respiro
e nei silenzi recita antiche scritture.
L’eucaliptus penetra nel verde rugginoso,
ha sospetti di magie,
troppo nuda incertezza nel misero destino
che partecipa a cadenze. 

*********

Compianto, sì, lo evocavamo… Da quando Antonio
ha perso la sua sposa, consorte d’ogni destino, umano
e forse ultraterreno, la Sua poesia è per incantevole
amorosa adesione ancora più vitale e mossa all’anelito…
Bizzarro, ennesimo inopinato (aulico) caso di un vigoroso
petrarchismo “post-moderno” che mischia, assimila rime
in vita e morte di Madonna L’Aura (la sua propria compagna)
nello stessissimo modo…

Lasciami ancora uno sguardo
nei giorni in cui non trovo più parole
ed il mio passo ricorda i fili d’erba
che intrecciavano dita, nude per colori.

Ed anche il lessico lirico, che in Antonio Spagnuolo,
è sempre stato reboante e densissimo, pulviscolare
d’empatie o viceversa distonie, qui si riaggrega in un
ritmo e un destino emotivo di ammirevole sicurtà,
fedeltà ispirativa. L’Aura è tutto (non più quella dell’autore
del Canzoniere, ovviamente, ma semmai quella rimpianta
e inseguita a suo modo da Benjamin, col suo zoppo Angelo
della Storia, minorato ad una sola ala…). 
E come volare se non con due? Può dunque essere
un’altra ala, la poesia?

Il geranio, aggrappato alla controra,
tenacemente accompagna la mia storia,
che stilla i giorni senza fantasia,
che ripete il tuo nome inutilmente.

Giunto non alla fine dei tempi (lasciamole ai filosofi fin
troppo contemporanei, o ai sociologhi à la page, queste
romanzesche teoresi sulle modernità liquide, i secoli brevi
e la fine della Storia!), ma alla controra ripetuta e irripetibile
d’ogni sua giornata, ormai Antonio scrive a tutti noi come
scrivesse semplicemente delle poetiche missive alla moglie:
e noi ci rispecchiamo, perché il suo coniugio è esattamente
quello che vive e “scompare tra la pagina bianca ed una
sillaba / che sussurro nel timido violino”…

Ora frantumo lo specchio che deforma
La mia immagine di vecchio,
e finisco nell’ossessione della tua assenza.
Prigioniero solo della prossima morte
indosso una maschera tribale.

Maschera tribale. Pare un appunto, uno scorcio d’un diario
di Jung… Qui lo Spagnuolo dottore di Psiche, scienziato
di Animus e Anima, torna a farsi (a farci!) coraggio…
E noi non dimentichiamo che questo poeta, già caro
a figure diversissime ed egualmenti eminenti, laiche o
d’educazione cattolica che fossero (da Raboni a Pomilio,
per intenderci), ha impostato tutta la sua vocazione
letteraria, ansia espressiva, sull’“adesione a un’idea
psicanalitica della poesia,” – scriveva Franco Pignatti
Morano già nel 1992, incoronando e rubricandone
la voce nel Dizionario della Letteratura Italiana del
Novecento, curato per Einaudi da Alberto Asor Rosa
– “intesa come affiorare di un elemento prelogico
nell’esperienza mentale, comporta in Spagnuolo il
rifiuto di una sintassi vincolante, sul piano del
linguaggio come su quello del senso. È costante
nella poesia di Spagnuolo la rappresentazione di
nuclei tematici come la centralità dell’eros, la relazione
eros/ thanatos e libido/morte – cui risponde il ricorso
a una terminologia clinico-psicologica, evidente
soprattutto in ‘Melania’ (sezione centrale di Candida,
Guida, Napoli, 1985)”. 

È tempo che io raggiunga altri spiriti
per raccontare meraviglie del passato, di presagi
che nessuno comprende, quasi fantasia di un filo
confuso a quegli attimi sospesi della delusione.

Praterie freudiane da percorrere e investigare –
poetare poi a occhi aperti come se una Gradiva volesse
infine raccontarci le gesta vere dei suoi sogni, i romanzi
che vive alle radici, nel limbo onirico del sub-conscio,
questo sì, prelogico; dunque, sommamente, sottilmente
poetico… Perché va in scena il lutto e ogni rinascita;
il rimpianto e l’essenza che resta; la perdita e l’immutabile;
l’amore che fu e quello identico che è, dunque che resta:

Ricordo l’orizzonte arrossarsi
prestato ai colori dell’amore,
e il tuo concedere al cucirsi della favola
per fermare il frammento.
Improvvisa la sera mi dilania
nell’imminente disfarti.

Ma ora il lutto, l’attesa, il rimpianto, lo stillicidio
(e la salvezza) memoriali… sono ancora elementi “prelogici”,
o non invece bilanci e slanci definitivi, infinitesimi approdi –
scorci – concessioni superne di una rinnegata/ritrovata
infinità?!…

L’infinito non ha segni per il mio gioco
e le incertezze strappano attese
nel turbinio delle figure.

*********

Ma ci sono i versi belli, come stelle, a guidarci nella notte
dei tempi, nel periglioso ondeggiare, turbinare del Cuore.
Endecasillabi a costellazioni per capire, pellegrinare il cielo…

Nei giorni in cui non trovo più parole…
Il geranio, aggrappato alla controra…
Cede al pensiero e frantuma il meglio…
L’abbandono delle forme del nulla…

C’è questo insorabile, iterato verseggiare in continuum,
che è come un monologare (o se vogliamo dialogare),
discettarsi il cuore, le emergenze minime o i massimi
sistemi tra vita e poesia…
C’è un abisso che “ha squarciato ogni tempo”, ed ora
“l’immagine schizza via dalle forme”… (Che poi è il
destino schietto, vero ed eterno dell’Arte)…
Ci sono esclamazioni cocenti, ansie insopprimibili:
“Ecco l’inganno!”; “Esiste l’urlo!”. Ansie irredenti e
purissime, che sommuovono e il testo e l’animo –
fra marosi spezzati d’infinito, scogli aguzzi di dubbi,
e spuma iridescente, evanescente, magniloquente
e cruda come l’ultraismo dei migliori poeti spagnoli
della generazione del ’27, da García Lorca ad Alberti… 
C’è la Natura trasfigurata non come sfondo, ma come
Deità e figurazione delle figure, affresco interiore che
si denuda ad abbronzarsi di sole, battezzarsi di luce:

Ogni ramo si inclina a cercare la terra ancora desideri
rubati all’accanita volontà di energie, mentre si allontana
la fragile presenza del tuo amore.

Ci sono ascendenze classiche, meditanti rivelazioni
diremmo lucreziane: 

Rapido il registro del cancello stride per la speranza
di ritrovare oltre, un’altra parte, l’incertezza
delle figure interrotte, un’iride delusa dal luccichio
delle allegorie.

E pennellate d’un pittore di prima grandezza – non importa
ora periziare se è in capriccio brioso d’impressionismo
o arcano rancore, plumbeo lucore espressionista:

Poca luce il mormorio della vecchiaia, intrattabile…
La ferita è come luce carica di dolore, nelle sere…
Tra le tempie imbianchite ed il cuore ormai oscurato
gli attimi del chiarore sono ingannevoli…
Tutto diventa ombra nei lacerti
della mia solitudine, per sfiorare il tempo
che soffoca il mio singhiozzo.

Ci sono vigorosi echeggiamenti dei poeti più amati…
Estri insomma à la Rimbaud!: “Anche le radici inventano
l’antico naufragio / sull’orlo delle sorprese,
caleidoscopio / di sterminate aurore,
spezzettate / nelle follie degli affetti”… 
Sentenze marcescenti à la Baudelaire!:
“Nebulosa la tenera tessitura delle
tempie / per il corrotto sembiante del tuo viso”…
E finalmente, teoremi fulgidi, elegiaci, degni del miglior
Rilke: “Beffarda e dolorosa l’ossessione / che corrode
per insegnarmi il perdono / nel rincorrere affanni
dell’addio, incontenibile gioco, / e condanna il rimorso
che perseguita il tempo.”

Ma è l’inesauribile dono d’esistenza – questo giudizioso
sperpero di gioie e dolori, illusioni e certezze, amenità
e rimpianti, questa cascata inesorabile di colori caldi
e stigmi raggelanti, languori carezzevoli e atrocità
dell’Essere, che fanno di questo libro davvero un
caleidoscopio di sterminate aurore, duttile e sognante,
eppure anche rigoroso, fiero, imperdonato e imperdonabile
per positura d’integrità, deriva pronta a vincersi, a lasciare,
rinnegare ogni mora irrisoria, ogni irrisolutezza mondana
in nome veramente di “Dimensioni” più degne ed eccelse,
più alte e abbacinate vertigini… 
Quando l’immagine schizza via dalle forme, e dentro o
dietro la Poesia noi ritroviamo la nostra libera idea di Dio,
la nostra certezza, le nostre vertiginose, appunto, nozze
d’amore con l’Amore – tutto l’amore, l’amore di tutti: 

Vertigini
nello stacco che intende il frullio dell’arteria,
soltanto la parola che inceppa
corteggia il pensiero sbiadito in fantasmi di gioco,
perduto lo sguardo al magico colore
dei frammenti del fato che incide.
*

Plinio Perilli


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