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Epistemologia della complessità in neuroscienze : L'EMERGENZA DELLA COSCIENZA (7-5-2013)

Epistemologia della complessità in neuroscienze :
L'EMERGENZA DELLA COSCIENZA


Durante l'articolazione del mega pippone sul TETRAEDRO si è fatto riferimento al lato corporeità, indicando agli estremi dello stesso i possibili dualismi o coppie di opposti quali ad esempio corporeità ambientale esterna e corporeità individuale soggettivita..... fino a  Super-Io ed Inconscio

Invece, La coscienza (Io, autocoscienza) è stata collocata in un punto che presenta una ulteriorità di posizione rispetto alla linearità perfetta intesa tra le coppie di opposti dette sopra. Tale posizionamento dell'io (autocoscienza) vorrebbe esprimere la libertà che l'autocoscienza ha di esprimersi al di là della sola linearità di possibilità della fisicità perfettamente lineare e dualistica (puntualità  emergente) MA allo stesso tempo anche la possibilità di interazione sia attiva che passiva che ha con tale dimensione (puntualità emergente ma pur sempre emergente a partire da una data base e avente ricadute su una altrettanto determinata base).  



Questo discorso potrà sembrare una semplice rappresentazione figurativa fine a se stessa. 
In realtà a proposito del tema di "un punto che emerge a partire da una dimensione lineare nota determinando un evento nuovo o impossibile nella pura linearità e tuttavia capace di ridefinire un unità di esperienza con la dimensione lineare stessa ulteriorizzata nella figura planare del triangolo": In epistemologia si parla di teoria della complessità per quanto riguarda la possibilità che sistemi lineari possano dar luogo o essere riferimento di eventi non lineari descritti come "EMERGENZE". 
(Dunque, la stessa autocoscienza umana è studiata anche, dal lato corpo dell'essere umano, come emergenza dei circuiti neurali"

Per andare più nello specifico a proposito di corporeità e autocoscienza, mi sono permesso di riportare le parole dello psichiatra, psicolinguista e filosofo Sergio Benvenuto rilasciate ad un giornalista a proposito di cosa significhi intendere in neuroscienze la coscienza come emergenza.

Domanda:
Lei parla di emergenza. Ci può spiegare meglio come funziona questo concetto nelle neuroscienze?
Risposta:
Sì, certo. In effetti la nozione di emergenza in tutto quello che ho detto e in tutto quello che penso riguardo a queste cose - né sono solo a pensarlo - è una nozione assolutamente centrale, in mancanza della quale si continua a restare, come accade nella maggior parte dei casi, in una visione dualista del genere body/mind, e non si arriverà mai a comprendere come un'attività di tipo sia cognitivo, sia cosciente possa essere collegata a una base materiale, senza essere ridotta a un'influenza materiale, come sia possibile un approccio non riduzionista alle basi materiali [della coscienza]. Come dev'essere intesa al nozione di emergenza? Ancora una volta bisogna gettare uno sguardo sulla storia, perché si tratta di una nozione che proviene dalla fisica, che, dall'inizio del secolo, si è sviluppata assieme alla fisica. Proviene dall'osservazione delle transizioni di fase o transizioni di stato o per dirlo più chiaramente di come si passa da un livello locale a un livello globale. Faccio un esempio banale. Sono in circolazione [nell'atmosfera] innumerevoli particelle d'aria e d'acqua e tutt'a un tratto per un fenomeno di autoorganizzazione - questa è la parola chiave - diventano un tornado, un oggetto che apparentemente non esiste, non ha vera esistenza, perché esiste soltanto nelle relazioni delle sue componenti molecolari. Nondimeno la sua esistenza è comprovata dal fatto che distrugge tutto quello che incontra sul suo passaggio. Dunque è un curioso oggetto. La nozione di emergenza ha avuto molti sviluppi teorici e in biologia si trova che i fenomeni di emergenza sono assolutamente fondamentali. Perché? Perché ci permettono di passare da un livello più basso a un livello più alto, all'emergenza di un nuovo livello ontologico. Quello che era un ammasso di cellule improvvisamente diventa un organismo, quello che era un insieme di individui può diventare un gruppo sociale, quello che era un insieme di molecole può diventare una cellula. Dunque la nozione di emergenza è essenzialmente la nozione che ci sono in natura tutta una serie di processi, retti da regole locali, con piccole interazioni locali, che messi in condizioni appropriate, danno origine a un nuovo livello a cui bisogna riconoscere una specifica identità. Qui la parola identità è importante. Quando si parla di una certa identità cognitiva, si pensa per esempio al fatto di un cane che si sposta, che decide se andare a destra o a sinistra, che ha un certo temperamento o un certo comportamento, una vita individuale. Si può dire benissimo che questa è la vita mentale, la vita cognitiva del cane: preferisce, sceglie, si ricorda ecc. ecc. Dove ha origine tutto questo? Nella visione delle neuroscienze l'origine è in quella serie di interazioni, dunque nelle sue percezioni-azioni, nel collegamento [couplage] con il mondo, che fa emergere il livello transitorio di un aggregato, da una specie di assemblaggio di tutti i moduli particolari che sono la percezione in quanto tale, l'azione in quanto tale, ecc. ecc. mettendoli insieme in una unità coordinata che sarebbe la vita cognitiva del cane. Qui c'è un salto. Per noi è lo stesso. La nostra identità in quanto individui è di una natura del tutto peculiare. Da un lato si può dire che esiste. Mi dicono: Buongiorno, Francesco, ed io sono capace di rispondere, di avere delle relazioni con gli altri. Dunque c'è una specie di interfaccia, di collegamento [couplage] col mondo, che dà l'impressione di un certo livello di identità e di esistenza. Ma al tempo stesso questo processo è di natura tale che appunto, come in tutti i processi emergenti, io non posso localizzare questa identità, non posso dire che si trovi qui piuttosto che là, la sua esistenza non ha un locus, non ha una collocazione spazio-temporale. È difficile capire che si tratta di una identità puramente relazionale e così nasce la tendenza a cercare i correlati neuronali della coscienza, per trovarli nel neurone 25 o nel circuito 27. Ma non è possibile, perché si tratta di una identità relazionale, che esiste solo come pattern relazionale, ma è priva di esistenza sostanziale e materiale. Il pensiero che tutto quello che esiste deve avere esistenza sostanziale e materiale è il modo di pensare più antico della tradizione occidentale ed è molto difficile cambiarlo.

Qual è la sua posizione personale - che immagino antiriduzionista - in questo dibattito?
C'è una tendenza, un vettore riduzionista, in cui la nozione di NCC occupa veramente la maggior parte dei dibattiti e delle discussioni. Ma alcuni di noi - parlo a titolo personale, ma evidentemente non sono solo, anche se siamo sempre un po' in minoranza - pensano che la questione posta in questi termini non ha soluzione, per la semplice ragione che il vissuto in quanto tale è per principio logicamente ed empiricamente irriducibile a una funzione neuronale. È quello che si chiama il problema duro della coscienza. Ciò che appartiene al vissuto ha uno statuto o una natura che non è spiegabile in termini di sistema neuronale. Se ne può trovare un correlato, ma questo correlato non cambia assolutamente il fatto che il lato fenomenico [phénoménal] resta quello che è, un'apparizione fenomenica [phénoménal], un accesso fenomenico [phénoménal] alla mia coscienza. Dunque bisogna mettere la discussione in termini diversi, tenendo presente il fatto che il dibattito sulla coscienza è cominciato e si è sviluppato per la maggior parte negli Stati Uniti, dove la filosofia della scienza dominante che si chiamaphilosophy of mind, è una filosofia di tipo analitico, che si interessa essenzialmente a dare buone definizioni delle categorie e degli oggetti, mentre il mio background filosofico è piuttosto quello della tradizione fenomenologica. Nella tradizione fenomenologica il punto di partenza è la natura del vissuto e la spiegazione materiale del mondo, la spiegazione delle relazioni tra l'elemento fenomenico[le phénoménal] e il mondo. Non si tratta in alcun modo di un tentativo di riduzione o di un tentativo di dissolvere l'elemento fenomenico [le phénoménal] nell'empirico, perché sarebbe un'impresa destinata a fallire. Qual è l'alternativa? L'alternativa è in un certo senso evidente - non direi banale, ma evidente - solo che vi si rifletta adeguatamente. Perché? Perché quando dico che la coscienza è il vissuto, non parlo di qualcosa che esiste solo nella mia testa. Non posso mettermi alla ricerca della coscienza a partire da un tratto di circuito cerebrale. La coscienza non appartiene, per così dire, a un gruppo di neuroni, appartiene a un organismo, appartiene a un essere umano, a un'azione che si sta vivendo. Non è proprio la stessa cosa. Che cosa vuol dire precisamente? Vuol dire che non si può avere una nozione della coscienza e della maniera in cui emerge, se non si prende in considerazione il fatto che il fenomeno della coscienza appare in un organismo ed è legato ad almeno tre cicli permanenti di attività. In primo luogo è connesso in permanenza con l'organismo. Si dimentica troppo facilmente che il cervello non è un fascio di neuroni sezionati in laboratorio, ma esiste all'interno di un organismo impegnato essenzialmente nella propria autoregolazione, nella nutrizione e nella conservazione di sé, che ha fame e sete, che ha bisogno di rapporti sociali. Alla base di tutto ciò che pertiene all'integrità degli organismi, c'è infine il sentimento dell'esistenza, il sentimento di esserci, di avere un corpo dotato di una certa integrità, appunto. Per un aspetto essenziale la coscienza rientra nell'attività permanente della vitalità organismica che, muovendosi sullo sfondo del sentimento di esistere, è continuamente permeata, attraversata, da emozioni, sentimenti, bisogni, desideri. In secondo luogo è evidentemente in collegamento [couplage] diretto col mondo, o in interazione col mondo, attraverso tutta la superficie sensorio-motrice. Io ho coscienza del bicchiere, nel senso che, quando vedo il bicchiere, dico: ho coscienza di questo bicchiere. Ma il bicchiere non è un'immagine nella mia testa, di cui io debba prendere coscienza dall'interno, Si è scoperto che il bicchiere - questa è buona neuroscienza - è inseparabile dall'atto di manipolarlo.L'azione e la percezione costituiscono un'unità e il mondo non esiste, se non in questo ciclo, in questo collegamento [couplage] permanente. Io amo dire che c'è un'interazione col mondo e che il mondo emerge solo grazie a questo collegamento [couplage] che è una fonte permanente di senso. È un'evidenza veramente massiccia, che si è costituita a partire dallo studio dei bambini, dalla neurofisiologia della corteccia motoria e sensoriale, e via di seguito. Ne potremmo parlare per diverse ore. Quando parlo di contenuti di coscienza, e dico di vedere un bicchiere, il volto di un amico, il cielo, non parlo di un tratto di circuito [circuiterie] neuronale che capta un'informazione dal mondo e ne fa un correlato della coscienza, sto parlando di qualcosa che è necssariamente decentrato [excentré], che non è nel cervello, ma nel ciclo, tra l'esterno e l'interno, non esiste che nell'azione e nel ciclo, nello stesso modo in cui il sentimento d'esistenza vive nel ciclo tra l'apparato neuronale e il corpo. Ma c'è ancora una terza dimensione, valida soprattutto per l'uomo - ma anche per i primati superiori - il fatto di essere strutturalmente concepiti per avere rapporti con i nostri congeneri, con individui della stessa specie, l'abilità innata, di un'importanza assolutamente centrale, che costituisce l'empatia, di mettersi al posto dell'altro, di identificarsi con l'altro. Il rapporto tra madre e bambino non è che una faccenda di empatia. Non soltanto nell'infanzia, ma per tutto il resto dell'esistenza, la vita, la vita mentale, la vita della coscienza, la vita del linguaggio o la vita mediata dal linguaggio, l'intero ciclo dell'interazione empatica socialmente mediato, io non posso separarlo da ciò che chiamo coscienza. Dunque ancora una volta non è all'interno della mia testa che tutto questo si svolge, ma in modo decentrato [excentré], nel ciclo. Il problema del neuronal correlate of consciousness è mal posto, perché la coscienza non è nella testa. Per esprimersi concisamente, la coscienza è un'emergenza che richiede l'esistenza di questi tre fenomeni, di questi tre cicli: con il corpo, con il mondo e con gli altri. I fenomeni di coscienza possono esistere solo nel ciclo, nel decentramento che esso comporta. Qual è in tutto questo il ruolo del cervello? Evidentemente il cervello ha un ruolo centrale, perché - la cosa si può dire molto bene in inglese, con una espressione difficile da tradurre - è the enabling condition, la condizione di possibilità. 
Ripeto ancora una volta che la coscienza non è un segmento di circuiti cerebrali, ma appartiene a un organismo incessantemente coinvolto nei differenti cicli e che quindi è un fenomeno eminentemente distribuito, che non risiede solo nella testa. Il cervello da parte sua è essenziale perché contiene le condizioni di possibilità perché questo avvenga. È meraviglioso. La meraviglia del cervello è che permette per esempio il coordinamento sensorio-motore di tutta l'interazione, la regolazione ormonale che assicura il mantenimento dell'integrità corporea, e così via. Ma la nozione di neuronal correlates of consciousness in quanto tale è, per usare le parole di Alfred Norton Whitehead, "una concretizzazione inopportuna". Non si può fare questa mossa senza escludere simultaneamente molti fatti importanti. Dunque la mia è una posizione antiriduzionista, ma al tempo stesso una posizione assai meglio fondata.
Questo riguarda la nozione di ciclo, ma come la coscienza emerga dal ciclo è una nozione assai fluida.

Accetta in questo caso di definirsi olista?
Il termine olista è superato, a mio avviso, perché risale all'epoca in cui c'è stato lo scontro tra l'idea che si potesse realizzare un programma riduzionista forte e una nozione filosoficamente motivata dall'esigenza di reagire contro quel programma. Qui non si tratta di olismo, ma di buona scienza. Si tratta di osservare una gran quantità di processi naturali, lo sviluppo e il funzionamento del cervello, l'organizzazione del sistema immunitario, l'organizzazione dei sistemi ecologici, che non possono essere capiti se non si prende in considerazione la dialettica tra i due livelli, che l'olismo non ha mai veramente compreso. Dunque il termine olismo non è veramente appropriato. Quando parlo di emergenza, parlo di qualcosa che è centrale nella ricerca scientifica contemporanea, anche se molti non ne hanno ancora colto l'importanza. È un problema assolutamente essenziale - e con questo chiudo questo piccolo a parte epistemologico - perché ciò che c'è di geniale nella nozione di emergenza è che, se da un lato un gruppo di neuroni in interazione con il mondo danno origine a una attività cognitiva, dall'altro, come in tutti i processi di emergenza naturale, una volta che ha avuto luogo l'emergenza di una nuova identità, quell'identità ha degli effetti, ha delle ricadute [causalité descendente] sulle componenti locali. Che cosa vuol dire? Vuol dire che il concetto di emergenza ci permette per la prima volta di pensare la causalità mentale. Il mentale non è più un epifenomeno, non è più una specie di fumo che esce dal cervello. Al contrario, si può dimostrare scientificamente, logicamente e anche matematicamente che l'esistenza, l'emergenza di uno stato mentale, di uno stato di coscienza, può avere un'azione diretta sulle componenti locali, cambiare gli stati di emissione di un neurotrasmettitore, cambiare gli stati di interazione sinaptica tra neuroni e così via. Questo vuol dire che c'è un vero va-e-vieni tra ciò che emerge e le basi che ne rendono possibile l'emergenza, che impone di fare una descrizione completamente diversa del posto della coscienza e della cognizione in generale - ma certamente della coscienza - nell'universo, non come livello fluttuante, ma come parte intrinseca della natura, come parte intrinseca alla dinamica del mondo naturale. È questo che mi piace e che ci fa avanzare rispetto alla perenne ripetizione di un dualismo che non porta da nessuna parte, senza dover ricorrere al riduzionismo, e senza che la coscienza perda il suo statuto fenomenologico [phénoménal], il suo statuto proprio

Ma si può veramente costruire un vivente, - dato che un robot non è un vivente - si possono ricostruire realmente degli organismi viventi a partire dall'inorganico?
Assolutamente sì. Ci siamo molto vicini, molto, molto vicini, precisamente perché esistono teorie dell'emergenza della cellula. Ci sono in questo campo risultati recenti assolutamente straordinari, come la produzione di cellule di sintesi, diverse dalle cellule storiche perché impiegano componenti diverse. Per la stessa ragione si può tentare di riprodurre tutto lo sviluppo di un animale multicellulare, sulla base di cellule disaggregate. Se si ha una buona teoria dell'emergenza, della forma di un embrione, la si può applicare. È sempre esattamente lo stesso ragionamento e dunque in questo tipo di prova non c'è assolutamente meno rigore che nel vecchio tipo di prova che è proprio della fisica. Dunque si tratta veramente di cambiare campo.

(a cura di Umberto De Palma)


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