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Geometria e Filosofia in Giordano Bruno (di M. FRANCIOSI - 7-5-2013)



Geometria e Filosofia in Giordano Bruno

in: Prospettiva e geometria dello spazio
a cura di M. Franciosi,
Agorà Edizioni, Torino 2005, pp. 115-134



Quando si pensa a Giordano Bruno si pensa naturalmente al filosofo dell'infinito, al filosofo, cioè, che, accogliendo senza riserve e radicalizzando gli esiti della teoria copernicana, propose ai suoi contemporanei la rottura della cosmologia aristotelico-tolemaica e la sua sostituzione con un universo immenso e innumerabilmente popolato di stelle e pianeti.

Dopo le relazioni che mi hanno preceduto e che hanno illustrato la grandezza dell' intuizione infinitista di Desargues, forse ci si aspetterebbe che una brunista (come io, forse, potrei essere definita) cedesse alla tentazione, in verità suggestiva e seducente, di intravedere in Bruno, nella sua filosofia – e nella sua filosofia della matematica in particolare – un'anticipazione di quell'intuizione, la quale, in fondo, viene fuori meno di quarant'anni dopo il rogo di Campo dei Fiori (Bruno, infatti viene arso vivo nel febbraio del 1600 e il Brouillon di Desargues è del 1639).

Si tratta, in verità, di una tentazione forte…e non nego che profilandomi allo stadio di progetto il contenuto di questo mio intervento, avevo pensato di impostarlo proprio su questo piano, su quello, cioè, delle anticipazioni teoriche.

Certe mie recenti scoperte nel campo dell'indagine propriamente storica, però, unitamente a una sia pur breve riflessione (suggeritami proprio dal programma di questo convegno e dalla figura e dalla vicenda di Desargues che qui si è inteso affrontare) mi hanno indotto, in un secondo momento, a privilegiare, nel mio intervento proprio la dimensione storica, anzi, direi la prospettiva storica, visto il titolo del convegno e visto che questo bellissimo termine, che nasce nell'ambito della geometria della visione, ha sul piano storico una valenza semantica molto suggestiva e pregnante: la prospettiva storica, infatti, ha spesso, sulla lettura, sulla comprensione dei documenti, dei testi del passato, effetti non meno illuminanti di quanto li possa avere la prospettiva geometrica, la prospettiva propriamente detta, sulla rappresentazione piana dello spazio.

Ora, il caso di Desargues, quale è stato perfettamente illustrato dai relatori che mi hanno preceduto, mi è parso, a suo modo, esemplare proprio di un fenomeno di carattere storico: il fenomeno della "sommersione" . Intendo riferirmi con ciò al fenomeno per cui ( e ve ne sono molti altri nella storia del pensiero) una grande idea, nella fattispecie una grande idea matematica, non solo non viene compresa ma viene addirittura combattuta dai contemporanei, e questo perché costoro ritengono che questa idea sia stata acquisita "con metodi pericolosi e poco rigorosi"[1], al punto che bisognerà aspettare due secoli perché la scoperta., del tutto casuale, di una copia manoscritta dell'opera di Desargues, consenta alla sua idea di riemergere nel 1847.

Ma, ci si chiede, "pericolosi" per chi, per che cosa, sotto quale punto di vista?

E, del resto, non può non venire in mente come – restando nell'ambito del sapere matematico – un fenomeno analogo è rappresentato dal destino del Metodo di Archimede, rimasto "sommerso" per secoli fino a che la sua scoperta casuale in un palinsesto ad opera di Heiberg nel 1906 non lo rendesse disponibile all'umanità.

Ora, la domanda sul perché certe idee, secondo un fenomeno ricorrente nella storia del pensiero, vengano sommerse, scompaiano dall'orizzonte di consapevolezza umana, per poi ricomparire, magari, del tutto casualmente, dopo secoli dalla loro elaborazione, è una domanda che a me, personalmente, si è imposta a conclusione di una mia lunga, annosa ricerca sulla filosofia matematica di Giordano Bruno.

E questo convegno mi offre l'occasione di proporvi una certa risposta, maturata, appunto attraverso le mie ricerche su Bruno, una risposta che sembra affratellare in qualche modo i destini di Bruno e di Desargues per il fatto che, col caso Desargues, sembra proprio che ci si trovi di fronte, a distanza di meno di quarant'anni dalla morte di Bruno e a circa cinquanta dall'ultima espressione del suo pensiero (1591), al puntuale verificarsi sul piano fattuale di una situazione di ingabbiamento ideologico del sapere scientifico che è proprio quella di cui Bruno sembra aver intravisto al suo tempo i sintomi e contro cui sembrerebbe programmaticamente essere rivolto il suo messaggio filosofico.

Vorrei tentare a questo punto di proporvi in un percorso sintetico alcuni momenti significativi della riflessione di Bruno sulla matematica, per tentare poi di reimmergere, per così dire, questo percorso nel contesto storico preciso in cui questa riflessione maturò, e cercare, quindi, di trarre da questa operazione alcune indicazioni utili a spiegare Bruno… e forse non solo Bruno.

Cominciamo col dire che l'arco di tempo in cui si situa la produzione bruniana, come sapete, è molto breve a va dal 1582 (data di pubblicazione del De Umbris, la prima delle sue opere a noi pervenuta) al 1591, data di redazione delle Pralectiones geometricae e Ars Deformationum (rimaste inedite sino al 1964) composte pochi mesi prima dell'arresto dell'autore a Venezia e della sua traduzione nelle carceri del Sant'Uffizio.

Solo nove anni, dunque!

In questi nove anni la riflessione di Bruno sulla matematica, che appare sin dall'inizio un punto cruciale della sua vicenda filosofica, subisce un'evoluzione importante.

Ripercorriamola brevemente!

1) Bruno, sin dagli anni giovanili, si mostra fortemente interessato a tematiche di tipo astronomico.

E' un fatto, questo, che si evince in primo luogo dalla ricostruzione storica dei suoi primi anni d'esilio, fatta in base alle sue dichiarazioni in sede processuale, da dove emerge che per ben due volte, a Noli nel '77 e poi a Tolosa nel '79, Bruno tiene lezioni di astronomia commentando la Sfera di Sacrobosco, cioè quel trattato di astronomia elementare, intitolato De sphaera mundi e dovuto a John of Hollywood, che costituiva sin dal tredicesimo secolo il manuale di astronomia più diffuso nelle scuole.

In secondo luogo, il forte interesse di Bruno, sin da questi primi anni, per le problematiche legate all'astronomia, non solo, ma addirittura la conoscenza da parte sua della teoria copernicana (anche se ancora Bruno non vi aderisce) è testimoniato da quanto egli stesso afferma nelle sue opere. Sappiamo infatti che nel De Immenso, il poema latino uscito a Francoforte nel 1591, Bruno, esaltando la figura di Copernico si rammarica, in certo modo, con se stesso, per non essere riuscito all'inizio (nei "teneri anni" in cui era venuto a conoscenza della nuova teoria astronomica) a comprenderla, in quanto impedito dall'opinione comune e dagli schemi logico-teorici della tradizione scolastica in cui egli era stato educato[2].

2)L'alba, per così dire, del pensiero bruniano, nella sua peculiare originalità, sorge al momento in cui Bruno ha un'intuizione decisiva (quella stessa, dobbiamo pensare che, come egli stesso afferma nel sovracitato passo del De Immenso, gli ha consentito di capire e accogliere entusiasticamente la teoria copernicana)

Il contenuto di questa intuizione e il programma di rinnovamento metodologico del sapere che ne consegue costituisce il cuore delle prime opere bruniane a noi pervenute, quelle degli anni '82-'83 ( di cui le più importanti sono il De Umbris idearum e il Sigillus sigillorum ).

In che cosa consiste questa intuizione?

Ecco, cercando di ridurre l'esposizione all'essenziale, Bruno afferma in queste opere di essere approdato alla convinzione – convinzione che manterrà sempre – che esiste nella mente umana una logica primitiva diversa dalla logica discorsivo-attributiva di tipo aristotelico, dominante nel sapere del tempo. Questa logica primitiva, di tipo simbolico-relazionale nascerebbe spontaneamente, secondo Bruno, nella mente umana, in fase prelinguistica, (senza, quindi, la frapposizione di mediazioni linguistico-grammaticali), come modo di "significare" e "memorizzare" (noi diremmo "archiviare") le cose e i loro rapporti oggettivi. Si tratta di una logica fortemente efficace e agganciata alla realtà, per il fatto stesso che, non esistendo il linguaggio strutturato e quindi le forme grammaticali di subordinazione fra i termini, la semplice coesistenza situazionale, empiricamente constatabile, fra le cose, i fatti, gli elementi dell'esperienza fisica, viene registrata nella mente umana secondo un ordine di tipogeometrico e da questo, e dalle sue interne potenzialità di ulteriore articolazione, riceve sia ordine sia suggerimenti di espansione verso ciò che, pur essendo reale, non è empiricamente constatabile.

Bruno conia per questa logica il termine di "semimathematica"[3]: nella semimathematica la geometria nasce come strumento della memoria e dell'immaginazione per costruire il sapere umano e insieme per allargarne i modi e i contenuti oltre i confini dell'esperienza possibile.

In tal modo la matematica e, in particolare la geometria, si configura sin da queste prime opere per Bruno come apparato di segni oggettivamente portatore di un significato fisico: il punto geometrico è, in sé, puro segno, ma è segno di una realtà fisica; la linea è in sé segno di relazione situazionale fra punti, ma il suo significato sta nelle forze fisiche che agiscono fra i termini reali di quella relazione.

I significati fisici, ribadisco, possono anche essere ignoti (anzi per lo più sono tali, per Bruno), cioè non ancora conosciuti, o addirittura non conoscibili con gli strumenti al momento disponibili ma, se ci sono i loro segni matematici, secondo Bruno, ci sono i significati e vanno scoperti!

Ciò significa una cosa ben precisa e cioè che per Bruno la matematica è sì un sapere di tipo "segnico" ma, in quanto naturalmente deputato a significare, è in grado soprattutto di suggerire, di produrre nella mente, ipotesi teoriche.

La relazione segno-significato è infatti per Bruno dotata di una vitale interazione dialettica: le correlazioni segniche e il loro articolarsi e determinarsi reciproco, come avviene nella Geometria Euclidea sono oggettivamente in grado, se proiettate nel campo dei loro significati possibili, di suggerire espansioni inedite dell'esperienza. Al tempo stesso, l'arricchirsi dell'esperienza può e deve complicare gli schemi segnici con nuovi punti e linee al fine di consentire a questi schemi la loro effettiva funzione cognitiva[4].


Questo nelle opere dell'82-83.

3) Siamo ai Dialoghi londinesi dell'84-85.

E' a questo punto che nell'opera bruniana fa il suo ingresso Copernico (nelle opere precedenti non se ne fa cenno). Copernico, cioè, fa il suo ingresso nella filosofia bruniana a compimento di un processo riflessivo di scoperta e "riscoperta" delle naturali potenzialità della matematica.

E l'ingresso di Copernico nell'opera di Bruno è un ingresso trionfale: é quello de La Cena de le Ceneri!

Perché sì, è vero che a Copernico viene mossa la critica di essere "più studioso de la matematica che della natura" e, quindi, di non aver saputo trarre sino alle ultime conseguenze infinitiste la portata della sua scoperta, ma sono critiche, mi sembra di poter dire, che Bruno muove più che altro ai matematici in quanto specialisti e non-filosofi, ai matematici che non sanno, come invece lui ritiene di sapere, che cos'è la matematica e qual è la sua reale funzione e portata cognitiva, ai matematici contrari a Copernico il quale peraltro, Bruno lo dice e noi sappiamo che è vero, era profondamente convinto della "veridicità" della sua teoria.

Ma su questo torneremo in sede storica.

Se però Copernico è certamente la figura cruciale, più o meno esplicita, intorno a cui ruotano i Dialoghi londinesi, la sua presenza in quest'opera è affiancata da altri due importanti punti di riferimento che già erano comparsi, seppure meno esplicitamente nelle prime opere dell'82-82, e cioè Niccolò Cusano e Pietro Ramo.

Il primo, Cusano, grande pensatore della metà del XV secolo, che possiamo a buon diritto definire il primo filosofo della matematica dell'età moderna, viene da Bruno esplicitamente riconosciuto nel De la Causa come "inventore dei più bei secreti di geometria"[5] e precursore dell'idea copernicana.

Il secondo, Pietro Ramo (Pierre de la Ramèe), padre e sostenitore nella Francia e nell'Europa dalla metà del XVI secolo, di una riforma generale del sapere a base linguistico-grammaticale, viene, nella stessa opera, spregiativamente appellato quale "francese arcipedante [ che] molto eloquentemente mostra essere poco savio" "[6], mentre il suo progetto di riforma viene a più riprese ridicolizzato attraverso la ricorrente figura del pedante insulso e ottuso che fa da interlocutore nei Dialoghi londinesi.

4) Tornato a Parigi, nel 1586 Bruno incontra un geometra "meccanico" suo conterraneo, Fabrizio Mordente, e scrive un gruppo di dialoghi, da cui emerge in sostanza una nuova idea-guida che è poi quella che porterà alla stesura delle due grandi opere di argomento matematico dell'ultimo periodo, e cioè gli Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos, pubblicati a Praga nell'88, e il grande poema latino De triplici minimo et mensura, pubblicato a Francoforte nel marzo del 1591.

Qual è questa idea-guida suggerita senza volere a Bruno da Mordente?

Ecco: la maggior parte degli studiosi, chi più chi meno, ha sino a questo momento identificato questa idea-guida nella contestazione da parte di Bruno del principio della divisibilità all'infinito delle grandezze matematiche, cioè di un principio base della matematica euclidea e posteuclidea, il che avrebbe spinto la riflessione bruniana sulla matematica sul binario morto di una filosofia sostanzialmente regressiva incapace di intendere le direttive portanti della nuova scienza, ciò in contrasto tanto più eclatante col "progressivismo" della sua entusiastica adesione al copernicanesimo e della sua dottrina dell'infinito.

Se però analizziamo pazientemente i testi in questione ci accorgiamo che l'idea-guida delle ultime opere matematiche di Bruno è tutta un'altra cosa: quest'idea non è altro che lo sviluppo coerente dell'intuizione che aveva mosso la stesura delle prime opere metodologiche, dell'intuizione, cioè, della naturale capacità del segno matematico di farsi portatore e disvelatore di un significato fisico che va al di là dell'esperienza. Perché?

Perchè quando Bruno nega risolutamente che la grandezza astratta, la grandezza geometrica, la grandezza-segno, possa considerarsi divisibile all'infinito, ciò che nega non è l'indefinita possibilità di operare sul segno matematico, in quanto tale, ciò che egli nega è l'attribuzione a quel segno e a quella operazione di per sé indefinitamente proseguibile, di un significato fisico incongruo e contraddittorio rispetto alla struttura logica del segno stesso: questo significato che Bruno respinge come incongruo e contraddittorio rispetto alla grandezza-segno, alla grandezza geometrica, non è un concetto matematico ma filosofico, ed è il concetto di materia prima, un concetto cioè che non solo appare a Bruno del tutto estraneo alla logica matematica – di per se pluralistica e discretistica in quanto logica di relazioni – ma che gli appare anche di evidente appartenenza a un contesto, quello della "volgare concezione del mondo", quello della vulgata aristotelico-tolemaica, quello del linguaggio comune piattamente inteso, che, di fatto, era stato messo in discussione dalle nuove scoperte scientifiche, prima fra tutte la nuova teoria copernicana
.

In pratica, cioè, ciò che si aggiunge ora all'intuizione che aveva costituito argomento delle opere dell'82-83 e che aveva aperto la porta all'accoglimento e radicalizzazione della teoria copernicana in quelle dell'84, è una cosa ben precisa, ed è, cioè, la drastica, accanita opposizione da parte di Bruno a quella che a suo parere è un'autentica aberrazione mentale, e cioè la reificazione della grandezza matematica in quanto tale, la reificazione, quindi, del segno che, proprio in quanto reificato, perderebbe il suo naturale legame col significato fisico di cui è portatore.

Come potrebbe, cioè – denuncia con forza Bruno – la grandezza geometrica, quella grandezza che, in quanto segno, ha, secondo lui, guidato la scoperta di Copernico, avere come significato, una materia amorfa, indifferenziata che solo attraverso l'intervento della forma sostanziale come causa efficiente e finale può dare origine al mondo fisico (secondo un modello che, non sono certo la prima a farlo notare, non è altro che la proiezione sul piano ontico, del rapporto grammaticale soggetto-predicato)?

Come si sarebbe potuto, su queste basi, accettare come veridica una teoria come quella copernicana in cui a giocare un ruolo decisivo (come ha osservato giustamente A.Koyré) era proprio la "geometrizzazione"[7],della nozione di forma, cioè l'eliminazione di tutti gli elementi di origine filosofica (teleologismo, eterogeneità sostanziale fra sfera terrestre e sfera celeste, movimento del luogo anziché del locato, ecc.) che giustificavano e fondavano la vecchia astronomia?.

E d'altro canto, se si doveva accettare come veridica la teoria di Copernico e, quindi la geometrizzazione della nozione di forma che ne era alla base, perché non sviluppare coerentemente le conseguenze di un simile accoglimento ammettendo da un lato l'infinità dell'universo, dall'altro, e con non meno coerenza, la struttura sostanzialmente discretistica (anche se di un discretismo empiricamente inesauribile) della realtà fisica a livello del microscopico come a quello del macroscopico?


Questo, secondo me, il punto di vista di Bruno. E se così è vorrebbe dire che Bruno, nelle sue opere matematiche, non si oppone affatto, come pure si è ritenuto in base a un grossolano equivoco storiografico, alla "numerabilità" all'infinito della grandezza geometrica, vale a dire alla "aritmetizzazione" o meglio (dato l'evolversi dell'aritmetica in algebra in quegli anni e alla scoperta, grazie appunto all'algebra, di nuove entità numeriche) alla "algebrizzazione" della grandezza geometrica: ciò a cui si oppone è l'idea che tale numerabilità corrisponda a una divisibilità.


In altre parole, il pensiero di Bruno sembra essere questo: o la grandezza geometrica è assunta come significante una determinata realtà fisica (come fanno i "meccanici", gli astronomi, come fa in generale la matematica applicata) e allora è in rapporto a quella realtà fisica che si può operare divisione, oppure la grandezza è assunta solo in quanto segno, come grandezza in generale, nella matematica pura, e allora essa si può solo numerare, non dividere perché ad essa corrisponde sul piano fisico l'infinità dell'universo, la quale è indefinitamente approssimabile per via numerica ( "quodammodo infinito" è l'espressione che Bruno usa per definire il numero e distinguerne l'infinitezza progressiva da quella "totale" dell'infinitezza in atto dell'universo[8]) ma non divisibile: in entrambi i casi l'idea di una omogeneità indifferenziata, di una continuità della materia (come voleva la vulgata aristotelica) su cui poter intervenire senza criterio, non era un'idea corrispondente al referente fisico reale o possibile dell'operazione.


Che cosa significa ciò?

Significa che Bruno non solo non si oppone all'idea di continuo matematico ma, in enorme anticipo sulle capacità umane di comprensione di questa nozione, in verità estremamente complessa, ne precisa il significato come opposto a quello della metafisica "volgare", in un modo sostanzialmente analogo a quello con cui Russell nel 1919 – e cioè a più di tre secoli di distanza – nella sua Introduzione alla filosofia matematica afferma che al contrario «dell'idea vaga associata alla parola "continuità" nella mente dell'uomo della strada o del filosofo [per cui questi] pensano alla continuità come a un'assenza di separazione, un po' come la generale sparizione della capacità di distinguere che caratterizza il calo di una fitta nebbia[….] il concetto matematico [di continuità] è uno schema logico astratto cui deve essere possibile riferire il materiale empirico con manipolazioni opportune, se questo materiale deve essere chiamato «continuo» in senso in qualche modo definibile con precisione»[9].

Uno "schema logico astratto", dunque, per Russell, il "continuo" matematico, uno schema logico cui riferire la fluidità e complessità del reale empirico per poterla determinare con precisione.

Se noi all'espressione "schema logico astratto", sostituiamo il concetto bruniano di segno e a quello di "materiale empirico" sostituiamo il concetto bruniano di significato ( pur con tutti i necessari "distinguo" storici e teorici fra le prospettive filosofiche di Russell e di Bruno) noi otteniamo, mi sembra di poter dire, qualcosa di molto vicino all'idea bruniana di "continuo".


Questa mia lettura della posizione di Bruno rispetto alla matematica, lettura, diciamo così, tutta interna al pensiero di Bruno e alla sua evoluzione, riceve però il suo senso più illuminante solo se andiamo a ripercorrere il tessuto storico all'interno del quale tale posizione si inserisce, cioè da quella che chiamavamo all'inizio la prospettiva storica.

Perché?

Perché è su questo piano che, a mio modo di vedere, possiamo scoprire come la posizione di Bruno nei confronti della matematica del suo tempo ha non poco a che fare con la nascita verso la metà del XVI secolo di una certa ideologia della matematica o se vogliamo di un certo uso ideologico della matematica (che è poi quella con cui sostanzialmente abbiamo a che fare tutt'oggi) la stessa ideologia sulla base della quale circa un secolo dopo sarebbe stata sancita la "barbarie" linguistica e quindi l'emarginazione dal contesto scientifico di un'idea matematica grandiosa come quella di Desargues.

Questa ideologia o uso ideologico della matematica che, per molti versi, sembrerebbe aver contribuito non poco al costituirsi del modello della razionalità occidentale moderna è, potremmo dire, volendo riassumerla in uno slogan ( che a qualcuno suonerà non nuovo sul piano filosofico, anche se associato a contesti problematici differenti – ma forse non del tutto – da quello in cui ci stiamo muovendo), l'ideologia del segno senza significato, o, se vogliamo, della programmatica dissociazione fra segno e significato.

Nella nostra cultura, infatti, nella cultura europea, a partire proprio dalla seconda metà circa del XVI secolo, cominciò a prendere piede in modo sempre più invasivo la convinzione che fosse scientificamente illegittimo l'uso dell'apparato logico-simbolico della matematica in un contesto di tipo analogico-immaginativo e viceversa ( cioè che fosse altrettanto illegittima l'associazione di contenuti analogico-immaginativi ai segni, al linguaggio specifico della matematica). Insomma che fosse scientificamente illegittimo un uso significante dei segni della matematica.

E' questo il punto che vorrei cercare di chiarire!

In Francia, nella Francia dalla seconda metà del XVI secolo circa, la Francia, cioè dove Bruno soggiornerà la maggior parte dei suoi anni d'esilio e di elaborazione filosofica, si andava attuando, nella consapevolezza solo parziale, dei diversi attori in gioco, una precisa operazione culturale che vede all'inizio affiancate su strade parallele, ma ben presto convergenti in un'unica direzione, tre diverse linee di sviluppo del pensiero del tempo: quella matematica, quella umanistico-giuridica, quella religiosa.

Ordunque, dal punto di vista specifico dello sviluppo del sapere matematico la rivendicazione dell'autonomia del linguaggio matematico dai "ceppi" di certi significati filosofici che storicamente si erano andati associando ai suoi termini, (pensiamo soprattutto alla geometria e all'ipoteca avanzata su di essa dal platonismo) e che ne vincolavano il processo di sviluppo, corrisponde indubbiamente a processo fisiologico di crescita della matematica: siamo in un contesto storico – vale forse la pena di sottolinearlo – che, pur non senza contrasti e linee di controtendenza all'interno del complesso e caotico sviluppo del sapere matematico di quegli anni – vede il progressivo affermarsi del predominio del numero sulla figura, del calcolo sull'intuizione, in una parola dell'Aritmetica (e di quella che ne diventa la generalizzazione: l'Algebra) sulla Geometria.


Punto di svolta in questo itinerario di sviluppo interno alla storia della matematica può ritenersi il De triangulis omnimodis di Regiomontano (pubblicata per la prima volta a Norimberga nel 1533), cioè l'opera che segna l'inizio della moderna trigonometria ma in cui, soprattutto, l'autore avanzava dichiaratamente un programma di rifondazione del linguaggio della matematica come dimensione segnica specifica, soggetta a regole eminentemente formali e a criteri di rigore del tutto indipendenti se non addirittura dichiaratamente opposti ai contenuti mentali più o meno spontaneamente associantisi a quel linguaggio, primi fra tutti i contenuti filosofici (di qui la critica spietata mossa da Regiomontano alla matematica"filosofica" di Cusano).

Ma se sul piano dello sviluppo interno, specifico, della matematica questo processo appare un processo fisiologico di crescita, molto meno "fisiologico" e molto più "ideologico" appare invece il processo analogo che a un certo punto si intese far corrispondere ad esso su un piano non più specifico ma generale.

Il programma di semplificazione a base grammaticale del sapere, che si afferma in Francia a partire dalla metà del XVI secolo ( e che di lì passa in parte in Inghilterra) e che ha come porta bandiera Pierre de la Ramée, (cioè quel Pietro Ramo che, abbiamo visto, costituisce la "bestia nera" di Bruno sin dall'83) consisteva in un programma di svuotamento delle stratificazioni semantiche acquisite dal linguaggio nei diversi campi del sapere (primo fra tutti quello filosofico) e di sostituzione delle stesse colla pura valenza d'uso comune dei termini ricostruita sulla base della grammatica.

Ora, non si può non intravedere come queste due operazioni apparentemente analoghe condotte in quegli anni, una (algebrizzazione) sul piano specifico del sapere matematico, l'altra (grammaticalizzazione) sul piano generale, del sapere tout court, procedessero di fatto in direzioni solo ideologicamente parallele: si trattava, infatti, di due direzioni diametralmente opposte dal punto di vista reale dello sviluppo delle condizioni di consapevolezza umana del mondo, delle condizioni, diciamo così dell' episteme, che è poi quella che interessa il filosofo Bruno.

Di fatto la logica ramista non corrispondeva ad altro se non alla ripresa ma in senso radicalmente antifilosofico dell'antico progetto aristotelico di rifondazione del sapere a partire dall'analisi delle forme del linguaggio.

In altri termini, tutta l'elaborazione logico-metafisica che la grande filosofia araba e scolastica era andata conducendo a partire soprattutto dai grandi testi aristotelici degli Analitici, della Fisica e della Metafisica, veniva buttata via e a venire riproposto era l'Aristotele dei Topici e delle Categorie presentato come l'unico Aristotele valido, l'unico che fornisse una piattaforma di unificazione possibile di tutto il sapere su base grammaticale.

In un contesto simile (ce ne si può subito accorgere) materia è termine che o non significa nulla o significa semplicemente il referente indefinito della più elementare prassi umana, allo stesso modo che continuo non significa altro che quella "fitta nebbia" di cui parlerà Russel, accomunando, non a caso, in questa nozione equivoca, l'uomo comune e il filosofo.

Ed è proprio questo il concetto di materia (se ancora si può chiamare "concetto" questa nozione estremamente vaga e indefinita) a cui si oppone Bruno come a quello che si vuole impropriamente far corrispondere alla nozione matematica di continuo.


Certo, è vero che, già prima di essere semanticamente svuotato dall'operazione ramista, il concetto autenticamente aristotelico di "materia prima" era tale da non potersi coniugare colla nozione propriamente matematica di continuo ma, ed è questo che Bruno vuole esprimere col suo atteggiamento apparentemente contraddittorio nei confronti di Aristotele e dell'aristotelismo, quello autenticamente aristotelico era ancora pur sempre un concetto filosoficamente duttile, problematico (come sapeva la grande Scolastica che per secoli ci aveva lavorato sopra e come sapeva lo stesso Bruno che su questi concetti si era formato), era dunque un concetto che, come tutti i grandi concetti filosofici, era suscettibile di aprirsi criticamente all'appropriazione in termini generali di concetti specifici.

Quella che invece in quegli anni si andava rivelando non solo del tutto refrattaria a costituire un pendant filosofico adeguato alle nuove acquisizioni scientifiche, ma anzi ostile ad esse e oggettivamente intesa a conculcare qualsiasi possibilità di accedere al sapere scientifico da parte del linguaggio e del senso comune era la logica di tipo ramista.

La logica ramista operò, cioè, a un certo punto proprio come cuneo ideologico inteso a scindere gli apporti del nuovo sapere scientifico dal sapere generale, a impedire che quegli apporti si facessero stimolo all'immaginazione teorica e rivoluzionassero il modo di pensare della maggior parte degli uomini

Ora, seguendo l'impostazione del programma ramista, molti matematici (matematici per modo di dire data la loro cultura quasi esclusivamente "umanistica" e la loro provenienza per lo più da studi giuridici [10]), soprattutto francesi, a partire dagli anni '50 del secolo, si erano accinti a tradurre gli Elementi di Euclide dal greco, correggendone spesso i criteri espositivi e comunque affrontando tutta una serie di concetti cruciali sul piano filosofico-matematico, come quelli di «pars», «multiplex», «terminus» «superficies» «mensura» «punctum», dal punto di vista di un aristotelismo grammaticale che certamente, in quanto tale, poco poteva essere d'aiuto alla rifondazione su basi moderne della matematica, ma che si rivelava estremamente utile proprio nel separare nettamente la dimensione teorica implicita nei progressi della matematica dalla sua dimensione d'uso, che si rivelava, cioè, estremamente utile nel trasformare la matematica in una dimensione di sapere tecnico e specialistico che, se da un lato era necessario alle esigenze dei poter economici e politici del tempo (basti pensare allo sviluppo parossistico dei mercati e della finanza in quegli anni, così come alle varie guerre, civili e non, per cui i nuovi "tecnici" servivano a costruire fortezze e apparati bellici sempre più sofisticati – "tecnici" e costruttori di fortezze sono alcuni dei maggiori matematici del tempo, come per esempio Stevino –) dall'altro lato doveva rimanere inaccessibile a chi da essa potesse trarre suggerimenti per farsi un'idea del mondo, per elaborare teorie…

La linea della "nuova matematica" propagandata da Ramo nelle sue Scholae mathematicae e cui si sarebbero poi attenuti i suoi numerosissimi seguaci in Francia (editori-distruttori di Euclide, professori al College Royal, ecc., programmaticamente fatti oggetto di scherno da Bruno negli Artidculi adversus mathematicos).era anche quella per cui bisognava gettare alle ortiche il decimo libro degli Elementi di Euclide, perché troppo complicato e inutile, e attenersi per quanto possibile alla matematica dell'utile, dei calcoli, della "logistica" (nome grecizzante inventato da Ramo al posto di quello troppo arabizzante di "Algebra") costruire, per quanto possibile, una astronomia senza ipotesi, visto che le ipotesi…come si era visto nel caso di Copernico, potevano risultare più che ingombranti rispetto alla semplice esigenza pratica di aggiustare i calcoli all'osservazione.

Ed è in questo contesto che i matematici "ramisti" recuperano e fanno largo uso del termine "barbarus" per stigmatizzare e respingere dall'ambito del linguaggio matematico non tanto (o non solo), come si andrà ripetendo per secoli e come si ripete ancora da più parti, il retaggio della Scolastica, ma tutto ciò che afferiva all'immaginazione teorica e al suo libero esercizio[11].

Questo controllo ferreo sull'immaginazione teorica era poi quello stesso che le nuove chiese riformate, soprattutto quella calvinista, intendevano esercitare sull'interpretazione della Scrittura.

E siamo qui alla terza linea, quella religiosa, di quelle tre linee di convergenza in senso antifilosofico della cultura del XVI secolo di cui si diceva all'inizio.

E' infatti con l'avvento della Riforma luterana prima e poi, soprattutto, colla sua radicalizzazione ad opera di Calvino, che la riproposizione da parte di Ramo e dei suoi seguaci della filologia e della retorica umanistiche, assume toni e significati oggettivamente repressivi dei diritti dell'immaginazione-ragione, alquanto diversi da quelli originari, radicandosi al di là delle Alpi e soprattutto su terreno francese prima e inglese poi, come vero e proprio programma di "rinnovamento" del sapere che, in stretta aderenza al programma dei riformati, si proponeva di tacciare di empietà e di escludere, se possibile, dai contenuti mentali disponibili all'uomo del tempo qualsiasi elemento che servisse da stimolo a un libero uso delle facoltà razionali umane.


La saldatura tra ramismo e calvinismo sarebbe del resto stata sancita dalla conversione nel 1561 dello stesso Ramo alla Chiesa riformata.

Otto anni dopo, infatti, il rogo di Michele Serveto in una Ginevra dominata teocraticamente da Calvino, nel 1561, appunto, Ramo avrebbe abbracciato la dottrina calvinista e sostenuto che tutto quello che i filosofi "pagani" ( e pagani erano gli antichi Greci come i filosofi Arabi come forse, anche se Ramo non si azzarda a dirlo, i pensatori della grande Scolastica, insomma tutti i filosofi) avevano scritto a proposito della materia prima, dell'eternità del mondo, della quinta essenza e della felicità dell'uomo in questa vita, era falso, capzioso e empio e che la logica (come – aggiungeva – la matematica) dovevano servire a semplificare il sapere riducendone l'unica validità al campo dell'utile e dell'interpretazione delle Scritture.

Di questo stesso punto di vista si faceva peraltro portatore il famoso prefatore del De revolutionibus, Osiander (teologo luterano, certo, ma, se si va a scoprire, di più che velate simpatie calviniste tanto da suscitare l'ira di Lutero nei suoi confronti) che senza l'autorizzazione né dell'autore (che moriva in quello stesso anno) né del suo discepolo e erede Rheticus, premetteva una sua introduzione alla prima edizione (1543) del De revolutionibus in cui assicurava che la teoria di Copernico non intendeva proporsi, come un vero e proprio rovesciamento dell'astronomia tradizionale ma solo come un'ipotesi utile per elaborare calcoli più esatti sui movimenti dei pianeti.

Ora appunto ne la Cena de le Ceneri, la grande, coraggiosa, opera bruniana in cui il copernicanesimo fa per la prima volta il suo ingresso trionfale e inoppugnabile nel pensiero umano, le fila di questo percorso che sono andata se pur frettolosamente delineando si allacciano in modo esplicito: il deridente sarcasmo con cui Bruno accoglie la illegittima prefazione di Osiander si accompagna (come già osservava acutamente il grande Aquilecchia[12], osservazioni recentemente riprese e ampliate da Granada[13]) a momenti di violenta polemica contro il Puritanesimo (cioè la variante inglese del Calvinismo), alla cui liturgia, di cui faceva parte la pratica eucaristica sub utraque specie, alluderebbe sarcasticamente lo stesso titolo (Cena) dell'opera; la difesa della veridicità della teoria copernicana e la sua radicalizzazione in senso infinitista si accompagna alla proposta di una concezione della matematica come unione inscindibile fra segno e significato che porta a una nuova concezione del mondo; la difesa, infine, del «sole» della nuova filosofia si accompagna alla ridicolizzazione del pedante (ramista) Prudenzio incapace di andare al di là dei più triviali luoghi comuni.

Allo stesso modo e in perfetta coerenza con questa linea di pensiero Bruno attacca nelle opere matematiche quella particolare dissociazione fra segno e significato della nuova matematica (algebra e trigonometria in particolare) che, coll'assenso degli stessi specialisti, inconsapevolmente tesi a difendere a spada tratta l'autonomia del proprio sapere, riduceva la scienza a sapere tecnico e ne conculcava, nello stesso tempo, le possibili implicazioni teoriche, oscurandole attraverso l'appiattimento grammaticale delle naturali capacità semantiche del linguaggio (o dei linguaggi) della mente.

Quel fenomeno di cui si parlava all'inizio, di sommersione dell'immaginazione teorica e di sterilizzazione dell'enorme fecondità conoscitiva delle nuove acquisizioni scientifiche stava prendendo l'avvio e avrebbe portato, possiamo forse dire, non solo all'oscuramento di Desargues ma anche, e prima ancora, del pensiero dello stesso Bruno.


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[1] L'espressione è di Carl B. Boyer, Storia della Matematica, tr.it. Milano, Isedi ,1976, p.415.


[2] «Heic ego te appello, veneranda praedite mente, /[…] generose Copernice, cujius/ Pulsarunt nostram teneros monumenta per annos/ Mentem, cum sensu ac ratione aliena putarem/ Quae manibus nunc attrecto, teneoque reperta:/ Posteaquam in dubium sensim vaga opinio vulgi/ Lapsa est, et rigido reputata examine digna,/ Quantumvis Stagyrita meum, nocteisque diesque,/ Graecorum cohors, Italumque, Arabumque sophorum/ vincirent animum, concorsque familia tanta.» JORDANI BRUNI NOLANI Opera latine conscripta, Faksimile Neudruck der Ausgabe von Fiorentino, Tocco und Anderen Neapel und Florenz 1879-1891, Fromman Verlag Stuttgert-Bad Cannstat 1962, I,1, pp.380-81.

[3] JORDANI BRUNI NOLANI, Opp.latt., cit, II,1, pp.87-88 e 229-30.

[4] E' difficile non intravedere il retroterra astronomico di questa concezione bruniana del rapporto tra segno e significato : è infatti soprattutto nell'astronomia (anche in quella aristotelico-tolemaica) che appare chiaro come i punti dell'astrolabio corrispondano a stelle, a pianeti, cioè a realtà fisiche oggettivamente enormi e fortemente agenti e reagenti le une sulle altre. Quello che appare chiaro però è anche il ruolo forte e, pertanto, scardinatore, che una concezione della matematica come quella sostenuta da Bruno in queste prime opere, gioca rispetto alla concezione aristotelico-tolemaica. In questa infatti le forze che agiscono sono forze in gran parte metafisiche: è la fisica qualitativa e teleologica di Aristotele che spiega perché si muovano i pianeti, la matematica di Tolomeo ha solo il compito di costruire uno schema di controllo e prevedibilità di quei movimenti perciò che essi appaiono ai nostri occhi (la matematica di Tolomeo è una matematica che "salva" i fenomeni non li "spiega")

[5] GIORDANO BRUNO, Dialoghi filosofici italiani, Milano 2000,p. 289

[6] Ivi, p. 231

[7] A.KOYRE, Introduzione a NICCOLO' COPERNICO, De revolutionibus orbium caelestium, tr.it. Torino, Einaudi,1975, p.XXV.

[8] L'espressione si ritrova nel dialogo parigino Idiota triumphans, in cui Bruno, criticando come incongrua l'espressione "numerum quasi infinitum" usata da Fabrizio Mordente per indicare le molteplici applicazioni meccaniche del compasso di sua invenzione, coglie l'occasione per precisare:«Condonetur dicenti numerum quasi infinitum effectuum mechanicorum: ibi enim per echstasis vim quam subierat quasi infinitum extraordinarie dixit quod omnes ordinarie quodammodo infinitum dicerent: nescit enim homo ille purus quantamlibet magnitudinem numerum finitum cum quantislibet aliis omnibus finitis ab infinito aequaliter distare: et ideo incongrue a geometra vel arithmetico aliquid quasi infinitum proferetur". GIORDANO BRUNO, Due dialoghi sconosciuti e due dialoghi noti, a cura di G.Aquilecchia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1957, p.12

[9] B.RUSSELL, Introduzione alla filosofia matematica, tr.it.Roma, Newton Compton,1975,pp.133-134

[10] Il processo di saldatura fra logica di stampo umanistico (e cioè ramismo) e linguaggio matematico assunto come nuova grammatica non solo per comprendere il mondo naturale ma, e prima ancora, per comprendere il mondo umano, è stato studiato con particolare acume in questi anni da una studiosa francese di origine italiana, Giovanna Cifoletti. Le ricerche di questa studiosa hanno posto in rilievo l'esistenza di un nesso decisivo fra algebra e retorica nella Francia del XVI secolo.che va di pari passo con "la costruzione" da parte degli storiografi del tempo, di stampo umanistico, di un falso di una certa notorietà e che darà luogo a non poche polemiche: quello di una storia dell'algebra ideata appositamente per bypassare l'evidente origine araba di tale branca della matematica e farne risalire l'origine a Diofanto d'Alessandria (cfr. GIOVANNA CIFOLETTI, The creation of the history of algebra in the sixteenth century, in C.GOLDSTEIN,J.GRAY, J.RITTER L'Europe mathematique. Mathematical Europe , Paris, Edition de la Maison des sciences des sciences de l'homme,1996, pp.123-142.

[11]Ancora nel tardo Seicento, com'è noto, il topos umanistico-rinascimentale della saldatura fra barbaries e filosofia scolastica, è accolto senza esitazione da Leibniz che, ripubblicando nel 1674, lo scritto del famoso grammatico Nizolio, del 1553, intitolato De veris principiis et vera ratione philosopohandi contra pseudo-philosophos, lo ripresenterà come Antibarbarus philosophicus, sive Philosophia scholasticorum impugnata…

Questa contrapposizione della vera ratio philosophandi basata sulla grammatica del linguaggio comune alla barbaries di una filosofia (quella scolastica) basata su una logica (quella aristotelica) fortemente impegnata sul piano ontologico aveva le sue ascendenze, come è stato ampiamente illustrato dai lavori di Garin, nell'Umanesimo.

E' infatti coll'Umanesimo, in particolare quello fiorentino, che si inaugura, diciamo così, la temperie culturale moderna e occidentale (e oserei dire occidentalistica) dell'antibarbarus, l'uso, cioè, della filologia contro le stratificazioni storico-culturali dei termini con la pretesa di "restituirli" ai significati originari, l'uso della grammatica contro le plurivalenze semantiche degli stessi termine con la pretesa di "restituirli" al loro significato comune, l'uso della retorica contro il rigore logico del sillogismo e la sua sostituzione con l'arte della persuasione (cioè con l'uso guidato dell'immaginazione che prelude a quello che sarà con la Riforma l'uso guidato dell'interpretazione).

Per quanto riguarda la matematica caso esemplare di questa operazione, si può considerare l'opera di Jean Borrel (latinizzato Buteus) matematico francese che nel 1559 dà alle stampe uno scritto sulla quadratura del cerchio intitolato De quadratura circuli libri duo…in cui per la prima volta, mi sembra, il termine "barbaries" e l'aggettivo relativo "barbarus" viene usato per stigmatizzare un linguaggio non rigoroso dal punto di vista matematico

Assunto dell'opera di Borrel è la difesa – secondo la sua intenzione – di Archimede contro la matematica "approssimativa" dei filosofi (Cusano) e dei "meccanici"(sperimentatori): all'insegna dello specialismo tecnico-calcolatorio della matematica. Borrel denigra e respinge come non matematica la radice stessa, intuitiva e sperimentale, dell'archimedismo rinascimentale, riconducendola alla filosofia "barbarica" di Nicolaus Cusano. Il modello cui si ispira dichiaratamente Borrel è la critica di Regiomontano alla quadratura di Cusano, pubblicata da J. Schoner ventisei anni prima, in appendice al De triangulis

Lo stesso Borrel e nello stesso anno pubblicava una sua algebra ribatezzata col nome di Logistica (neologismo già proposto da Ramo al posto dell'arabizzante e equivoco algebra) in cui esplicitamente denunciava gli Arabi e, implicitamente, le scuole d'abaco che avevano fatto scuola di matematica in Europa sino a quel momento, come propagatori di ignoranza , asserendo che l'essenza dell'arte (algebra-logistica) era già in Euclide. Così " ancient Greece becomes early Europe" G.CIFOLETTI, cit., p.140.

[12] G.AQUILECCHIA, Le opere italiane di Giordano Bruno. Critica testuale e oltre, Bibliopolis, Napoli 1991, p.42.

[13] MIGUEL A.GRANADA «Venghino a farsi una sanguisuga» Nota a un pasaje suprimido de la version definitiva de LA CENA DE LE CENERI, in "Bruniana & Campanelliana" A.VIII, 2002/1,pp.265-76

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http://www.literary.it/dati/literary/de_bernart_luc/il_segno_e_il_suo_significato.html
 


 
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