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A. SHOPENHAUER (di carlotta ricci 11-04-2012) |
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(a cura di carlotta ricci)
La filosofia di Schopenhauer
Schopenhauer ha segnato in modo significativo la cultura europea di fine Ottocento e di inizio Novecento e, insieme a Nietzsche, si pone come testimone della crisi dei valori. Terza parte dell'approfondimento di Studenti.it
Arthur Schopenhauer già nel titolo della sua più importante opera Il mondo come volontà e rappresentazione del 1819 ci dà l’indicazione di partenza di tutta la sua concezione: essa si basa sul duplice aspetto che la realtà assume a seconda che sia considerata in sé (Volontà) o per l’uomo (Rappresentazione).
Considerata in sé, la realtà-mondo è essenzialmente Volontà, cioè volontà di vivere, di esserci, di affermarsi e di esistere; energia cieca e immotivata che si realizza e muove ogni fenomeno. Anche l’uomo, come tutti gli altri esseri ne è posseduto. Ogni uomo, in quanto specificazione della Volontà, si sente "ego assoluto" e in quanto tale inappagato e inappagabile. In lui la volontà vorrebbe tutto mentre la realtà gli dà ben poco. Fragile e precario, sperimenta ogni momento la propria insoddisfazione e, come trascinato, sposta le sue mete e i suoi desideri ancora avanti fino a che la morte porrà fine a questa assurda fatica di esistere.
La Volontà si oggettiva allora in altri individui, in un continuo ribollire della vita in cui sempre certa è la sconfitta finale. Il quadro che ne viene fuori è disegnato su uno sfondo nero, ma pur sempre a forti tratti e con tinte che emergono lucenti. E’ una visione di contrasti costruita in modo tale che sia il nulla sia la vita e la sua inesausta energia sembrano, in un rapporto di negazione reciproca, esaltarsi a vicenda. In tale quadro vi è dipinto il nulla nella sua radicale irrazionalità, ma vi è dipinta anche la vita in quel suoimmotivato presente che sempre si offre e senza scopo si rinnova.
E questo aspetto per niente secondario della filosofia di Schopenhauer, questo aspetto vitalistico e biologico che in essa convive con l’altro, più conosciuto e caratteristico del rifiuto della vita, ha avuto grande e larga influenza sotto molti aspetti. Basta pensare, in campo filosofico, all’evoluzionismo positivistico e successivamente al concetto di Natura di Bergson e in campo letterario a Tolstoi e poi al Naturalismo francese e in particolare a Maupassant e Zola.
Il mondo come volontà e rappresentazione
Ma è soprattutto pensando alla Psicoanalisi e a Freud che è possibile apprezzare tutta la suggestione di spunti e convergenze che sotto questo aspetto, quello vitalistico, l’opera di Schopenhauer ha saputo suscitare nella cultura successiva.
La forza dell’Es che insoddisfatto preme contro gli steccati sociali, così come il drammatico destino dell’individuo schiacciato fra le contrapposte presenze dell’istinto e della civiltà, fanno parte di uno schema freudiano che trova chiaramente nella concezione di Schopenhauer, se non il suo antecedente, almeno la sua origine culturale. Questo per quanto riguarda il mondo come Volontà.
Ancora più percepibili e apprezzabili sono poi le influenze che Schopenhauer ha avuto per quanto riguarda l’altro aspetto della sua filosofia, allorché cioè egli prende in considerazione la realtà non più in sé ma quale all’uomo appare, secondo la prospettiva estetico-filosofica.
Il mondo come volontà e rappresentazione inizia con queste decisive parole: "Il mondo è una mia rappresentazione… E quando l’uomo sia venuto di fatto a tale coscienza, lo spirito filosofico è entrato in lui. Allora egli sa con chiara certezza di non conoscere né il sole né la terra ma soltanto un occhio che vede un sole e una mano che sente il contatto di una terra; egli sa che il mondo circostante non esiste se non come rappresentazione". Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, p. 39, Mursia)
Ciò comporta due ordini di conseguenze di cui il primo è l’evidente svalutazione della realtà empirica e con essa della scienza e della tecnica, e il secondo è l’affermazione di un’aspetto nuovo dell’io inteso ora non più come pulsione vitale (mondo come Volontà) ma come capacità rappresentativa. Si tratta in effetti di un mutamento molto profondo di prospettiva secondo cui gli oggetti, ma anche i fatti, i rapporti intersoggettivi, le emozioni, tutto ciò insomma che al soggetto è presente, non è più considerato mezzo di realizzazione delle proprie energie vitali ma "sguardo rappresentativo". L’io diventa, in altre parole, il "luogo" in cui gli oggetti sono. Si apre a questo punto uno scenario che è stato poi recepito ben nel profondo dell’anima contemporanea e che ha interessato, in maniera quasi capillare, cinema, teatro, romanzo e poesia. Secondo tale modo di sentire,gli oggetti sono creature dell’io e se l’io non ci fosse, nemmeno gli oggetti, in quanto sue rappresentazioni, ci sarebbero.
E’ chiaro che tale nuova prospettiva coinvolge e presuppone un mutato rapporto diresponsabilità col mondo circostante. Allorché, infatti, riesce a considerarsi "semplice" soggetto rappresentativo, l’individuo sfugge al proprio destino di fenomeno visibile della Volontà (cioè di fenomeno determinato dalla Volontà) e diviene "sostegno del mondo" (l’uomo cioè acquista autonomia, libertà rispetto ai fenomeni della vita, imparando a vederli come sue proprie rappresentazioni e quindi da lui stesso determinati). E in questo caso, dice Schopenhauer, "non resta più che il mondo come rappresentazione; il mondo come volontà è svanito".
Schopenhauer: la malattia come prospettiva privilegiata
Questa negazione della realtà del mondo ha per fine la liberazione del soggetto e il ritrovamento della sua autenticità. Questa liberazione tuttavia non dà luogo a energie nuove ma, all’opposto, a un senso di debolezza, di estraneità, di inettitudine emalattia, i quali termini si ritrovano poi puntualmente nelle opere e nei personaggi di quegli autori che in modo o nell’altro si richiamano al pensiero di Schopenhauer, comeThomas Mann (1875-1955), Robert Musil (1880-1942), Franz Kafka (1883-1924).
In Italia troviamo Italo Svevo e Guido Gozzano, esponenti di rilievo della nostra letteratura. In entrambi il distacco dalla vita è pagato con un senso di impotenza, di inettitudine e di malattia, cui viene contrapposto il mito della volgare salute borghese. Chi ha scoperto, come i personaggi di Svevo, il meccanismo della Volontà di Vivere, questa assurda e immotivata spinta all’azione che sempre si ricopre di falsi scopi, e chi, come loro, ha imparato a "vedersi vivere" non può essere destinato che alla "inettitudine", condanna e insieme vanto di chi, togliendosi dall’abisso e dai tortuosi mascheramenti della Volontà di Vivere, si è nel contempo privato di ogni bravura e aggressività in campo sociale.
Anche la malattia possiede questa ambiguità di fattore positivo-negativo. La malattia impone onestà e lucidità intellettuale, censura ogni retorica, brucia ogni aspettativa, rende possibile la tranquilla epifania degli oggetti, invita all’accettazione del proprio solitario destino e inoltre, forse, alla soddisfazione un po’ aristocratica di vedere finalmente il mondo dall’alto, con tutti quei "sani" che continuano a muoversi, muoversi….
Essere malato (come nel caso di Gozzano) o anche soltanto sentirsi tale (come nel caso di Svevo-Zeno) permette di poter così assumere una prospettiva privilegiata dove l’ironiasi unisce alla capacità di riflessione. Il dualismo dell’io impedisce all’uomo di prendersi sul serio. L’io infatti vuole, ma anche si vede volere e questo sguardo che costantemente l’io ha su di sé frena ogni possibile decisione etica bloccandola nella consapevolezza ironica. L’ironia è ineliminabile da una concezione "sdoppiata" dell’io e con l’ironia, d’altra parte, non ci può essere conversione etica o religiosa.
Dunque, l’intelligenza rappresentativa si è, sì, liberata dalla Volontà di Vivere, ma questa liberazione avviene contemporaneamente all’assunzione del "presente" come unica dimensione temporale di valore. Il presente-vita tende a divenire sola immagine, cosicché la liberazione dalla Volontà di Vivere coincide con la fine anche del rapporto etico e ontologico con la realtà. Quell’io dunque che, secondo Schopenhauer, si rappresenta il mondo annullandolo nella propria rappresentazione, si rappresenta anche se stesso, annullandosi così in pari senso.
Questo concetto del tempo come "presente" e questa correlativa concezione della vita come insieme di attimi da contemplare e usufruire senza ulteriori speranze o finalità, non sono direttamente collegabili al "pessimismo" di Schopenhauer. Il pessimismo ne è l’involucro formale, ma questa nuova percezione del tempo come "presente" ne può assolutamente prescindere. Essa infatti è espressione dell’"epoca del disincanto" (come chiamerà il nostro tempo il grande sociologo Max Weber) cioè l’epoca della fine delle certezze e della crisi dei valori. Tanto è vero che anche Nietzsche, ad esempio, pur opponendosi ad ogni tipo di visione pessimistica, manterrà e anzi svilupperà la concezione della vita come "presente".
E anche in Nietzsche, come in Schopenhauer, l’artista si porrà di fronte alla estranea, tranquilla e terribile bellezza del mondo, pronto ad accoglierla ma deciso a non tentare di afferrarla, perché appunto, solo l’attimo ci appartiene. E ogni attimo è autonomo: il tempo non scorre più; ha forse radici nell’eterno ma non si indirizza più a nulla. Il sistema è statico e questa staticità corrisponde alla sua dimensione soggettiva: la filosofia di Schopenhauer e quella di Nietzsche non è una filosofia del "mondo" ma dell’"io", quell’"io" che nella sua moderna metafisica solitudine ha di fronte un presente senza più passato e futuro.
Schopenhauer e Nietzsche
A questo punto è forse più facile cogliere il significato storico delle filosofie di Schopenauer e Nietzsche e comprendere come esse, pur nella loro profonda diversità, sorgano tuttavia da un problema unico: quello del significato da dare al presente in unaconcezione del mondo di fatto desacralizzata, in cui questo stesso presente sembra navigare in un continuo divenire, ormai disancorato da scenari metafisico-religiosi.
In tale contesto il valore da dare al presente non può più essere quello di un suo collegamento con un futuro, mai destinato ad attuarsi. Esso deve valere in sé oppure non valere affatto. Ecco quindi riaffacciarsi, alla rinnovata domanda "che valore dare al presente?", la risposta greca e la risposta orientale.
La risposta greca dava valore al presente proprio perché disimpegnato da qualsiasi futuro e da qualsiasi strategia. Esso potrà essere quindi inteso solo come immediata aderenza alla vita. La risposta orientale invece scopriva nel presente, in quanto tale, il non-essere, cioè l’irrazionale e il fondo illusorio dell’esistenza. Quest’ultima sarà anche la posizione di Schopenhauer , mentre Nietzsche aderirà all’altra, a quella greca.
Schopenhauer prende a prestito dall’oriente, e più precisamente dalla filosofia-religione indiana delle Upanisad e poi del Buddhismo, una concezione estranea al nostro sentire europeo e fondata sulla svalutazione di questo mondo e della stessa dimensione dell’essere. Nietzsche si riallaccia ad una mitica situazione culturale-esistenziale greca in cui la vita affrontata con energia creativa trovava, in un atteggiamento pre-cristiano e pre-europeo, la possibilità di essere accettata e valorizzata in sé.
C’è da dire che se da una parte tale concezione della grecità può, sulla base della filosofia pre-socratica e delle opere di Eschilo e Sofocle, risultare fondata, dall’altra essa nasce anche come proiezione dell’anima tedesca sempre alla ricerca di un’autentica e solare salute psicofisica di cui essa sente fortemente la mancanza.
Tuttavia, secondo Nietzsche, l’antica anima greca non è solo costruita di chiarezza plastica, di ordine razionale, di misura morale, ma anche collegata agli aspetti piùirrequieti, oscuri e inquietanti della natura umana, là dove la razionalità sconfina nel proprio radicamento biologico e incontra umori e energie non spente, non controllate né risolte. E’ l’aspetto "dionisiaco", irrazionale e vitale che nell’antica Grecia ha saputo tragicamente mantenersi integro di fronte all’aspetto "apollineo" della ragione.
Comunque, quello che subito colpisce nelle filosofie di Schopenhauer e di Nietzsche è la loro non appartenenza all’area della cultura europea. Non si tratta né di originalità né di una operazione di innesto e di arricchimento. La loro profonda innovazione deve essere vista in senso "negativo": come rifiuto e rigetto di una civiltà. Schopenhauer e Nietzsche sanno, del resto, di essere al termine della modernità e della stessa storia europea. Nelle loro filosofie vengono rivisitati in forma critica e poi giudicati illusori l’ideale cristiano del medioevo e quello del Regnum hominis dell’evo moderno; l’ideale di perfettibilità del Settecento e l’ideale del progresso e della storia dell’Ottocento. Il loro pensiero può essere visto come lo spaccato di una crisi della coscienza europea di fronte alla completa vittoria della visione razionale e illuministica del mondo.
Questa visione razionale e illuministica, una volta affermatasi nei confronti di ogni dimensione, entra poi in crisi essa stessa, quasi per autocombustione. E spegne la sua carica vitale, un tempo progressiva e umanistica, in una visione nichilista. Sotto questo aspetto le due filosofie di Nietzsche e di Schopenhauer sono profondamente unite anche se arriveranno poi a conclusioni opposte nei confronti della vita: di negazione totaleSchopenhauer; di adesione senza riserve Nietzsche.
Al di là di ciò rimane in esse una continuità di suggestioni e di atteggiamenti che contribuirà a formare, nei primi anni del nostro secolo, un unico clima culturale, oscillante, nei confronti della vita, fra gli estremi dell’accettazione passionale e del distacco ascetico e solipsistico.
Arthur Schopenhauer: un approfondimento
Il valore del presente
La filosofia di Schopenhauer e quella di Nietzsche hanno in comune la medesima concezione del tempo come "presente". Per queste esse tendono a confluire in un’unica e nuova visione del mondo, nonostante la diversità di contenuto che le contraddistingue e nonostante la loro appartenenza ad aree culturali cronologicamente distanti: Schopenhauer fa parte della cultura romantica del primo Ottocento; Nietzsche, del clima inquieto che già si affaccia al nostro secolo.
Tale concezione del tempo come "presente", accompagnata dal vuoto metafisico, venuto man mano a caratterizzare la nostra epoca, entrerà poi a far parte della sensibilità estetica di una componente non secondaria della cultura contemporanea, per cui abbiamo ritenuto utile delineare le origine storiche, le modalità espressive e i possibili collegamenti letterari di questa particolare percezione del tempo, in cui l’"io" si afferma nel suo "solo" presente (e quindi senza recuperi etico-metafisici) e vive e sperimenta se stesso come suprema irripetibile unità di fronte all’enigma del mondo e alla sua insensata e gratuita "bellezza".
Che valore dare al "presente"? Questo presente che è e non è, punto incessante di incontro tra passato e futuro. Prendiamo in considerazionetre diversi tipi di risposta che storicamente l’uomo ha cercato di dare a questa domanda: quella ebraico-cristiana: il presente è "attesa", attesa di un Messia, attesa del "Compimento" e della "Fine dei tempi" e, individualmente, attesa di essere chiamati nell’eterno. Il presente non è significante in sé, ma lo diviene solo in quanto mezzo e progetto per il futuro; quella greca: il presente è fine a se stesso in quanto unica vita vera e reale oltre la quale si sopravvive solo come "ombre"; esso va vissuto creativamente "come danza e tragedia"; quella orientale: il presente è vita, ma la vita è illusione; occorre spegnerne il desiderio.
Dopo la fine del mondo antico e il fallimento di quel grande "progetto terreno" che Roma aveva rappresentato, la storia dell’uomo europeo riprese il suo cammino sulla base della prima delle tre risposte su indicate: la risposta giudaico- cristiana la quale dà al presente un valore etico e alla vita il significato di un processo di realizzazione verso un fine che la trascende.
Anche quando, col mondo moderno, si assisterà al venir meno dell’antica centralità del motivo religioso, tale concezione tenderà a permanere. L’etica borghese infatti, lontanissima, peraltro, sia dalla "rassegnazione" orientale che dalla concezione aristocratica e libera che i greci avevano della vita, sarà ancora un’etica di impegno e di sacrificio del presente verso il futuro, un’etica di matrice ancora giudaico-cristiana nella misura in cui anche per il "fare" borghese, ogni felicità e ogni significato vengono prospettati sempre e solo "dopo".
Se non che tale concezione in cui il futuro non è più inteso come definitiva salvezza, ma semplicemente come utile e in cui il presente è considerato "investimento" per un futuro non più conclusivo, tradisce, tolta dal contesto metafisico-religioso in cui era nata, la propria irrazionalità. Impostando la vita sull’utile, di fatto la si rende inutile.
Un’umanità che vive il proprio presente come mezzo di cui il fine è l’utile è un’umanità irrazionale e stolta come giustamente la chiama Leopardi:
" Stolta che l’util chiede,
E inutile la vita
Quindi poi sempre divenir non vede"
(Il pensiero dominante v.61)
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