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Poesie, aforismi, filosofia, foto del mondo, concorsi, matematica, personaggi, UFO. |
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A SUA IMMAGINE (Studi Esoterici a cura di Umberto de Palma - 29-10-212) |
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A SUA IMMAGINE
di Umberto de Palma
(saggio contenuto nella rivista Kosmos 315 - Rivista di studi esoterici, storici e filosofici; Tipheret, 2012)
Dio, l’assoluto Essere
E’ detto di Dio che nessuno l’ha mai visto, che è uno, e che a partire da lui tutte le cose sono.
Volendo proseguire il discorso su Dio per via analogica, uno spunto interessante di ricerca e rappresentazione ci è dato dalla nozione geometrica di punto.
Il punto è definito un ente fondamentale adimensionale.
In quanto ente: Dio è.
In quanto fondamentale: Dio lo è in modo eminente perchè a partire da lui procedetutto il resto, (così come a partire dal punto sono possibili la retta, il piano..).
In quanto adimensionale Dio esiste eminentemente rispetto alle realtà dimensionali; il punto non ha dimensione. Grazie a lui le dimensioni sono poste.
L’analogia tra il punto e Dio sembrerebbe accettata sia dai credenti che dai non credenti, se pur in modi differenti, nel momento in cui, ad esempio, il credente afferma che Dio, in principio, è fuori dall’essere, essendo Dio (colui che è) ad aver creato l’essere (ciò che esiste). Mentre, per il non credente, Dio-non-è poiché essendo fuori dall’essere “semplicemente” non esiste.
In quest’ottica è possibile capire cosa significhi dire che “Dio non esiste, è”.
Le teorie fisiche odierne (la teoria del Big Bang) ritengono che l'universo si stia evolvendo, in particolare che si stia espandendo in modo accelerato: queste teorie si fondano sull'ipotesi che l'universo si sia generato in un ipotetico istante iniziale ed in un unico punto, in cui era concentrato tutto lo spazio, tutto il tempo e tutta l'energia attraverso un'espansione dello spazio ed un'evoluzione nel tempo. In questo caso l'Essere-universo sarebbe dinamico, ma è lasciato un "quid" originario senza tempo e senza spazio, per il quale cadono le definizioni stesse di dinamicità e staticità e che quindi supera le capacità mentali e sperimentali dell'uomo.
Ogni volta che è detto “Dio è assoluto” e ogni volta che viene posto un chiaro distinguo tra ciò che è infinito e ciò che è assoluto, e ancora di più ogni qual volta è detto che Dio non è infinito bensì assoluto, sono diverse le argomentazioni che è possibile citare a favore dell’una o dell’altra affermazione.
Il termine assoluto deriva da ab-solto, nel senso di “sciolto da”. In questo caso: sciolto dal mondo.
“Dio nessuno l’ha mai visto”
(Gv 1,18)
Il punto è adimensionale (separato-da le varie dimensioni geometriche che pure da esso dipendono).
“tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.”
(Gv 1,3)
Nella storia della filosofia il termine “assoluto” designa infatti una realtà la cui esistenza non dipende da nient’altro, bensì sussiste in sé e per sé.
Nel suo uso comune come in quello filosofico, il termine rimane a significare o lo stato di ciò che, a qualsiasi titolo, è privo di condizioni e di limiti, o (come sostantivo) ciò che realizza se stesso in modo necessario e infallibile.
Nella Scolastica appariva allora evidente come la conoscenza filosofica dell'Assoluto dovesse passare per un atto di fede o attraverso l'immediatezza dell'intuizione: conoscere significa infatti collegare, relazionare qualcosa con altro da sé; ma poiché l'Assoluto ha già tutto dentro, non ha un termine di riferimento esterno con cui possa relazionarsi.
Un'altra analogia usata per parlare di Dio è stata l’immagine del sole per il suo carattere centrale e per quello vitale dei suoi raggi che scaldano la terra e illuminano la visione.
Così come dal punto passano infinite rette, il sole splende di infiniti raggi.
La vita che il sole dona – quella di cui lui anche splende – è elargita fuori di sé nella luce dei suoi raggi.
“In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini”
(Gv 1,4)
Immaginando ogni raggio da Lui emanato simile ad una retta, nei suoi raggi hanno avuto vita infiniti altri punti che, seppure di natura creata, pur sempre punti erano, anch’essi enti fondamentali adimensionali (autocoscienze a sua immagine e somiglianza).
Rifacendoci alle fonti ebraiche e cristiane a proposito della creazione, incontriamo la creazione di una prima natura edenica, incorrotta. Successivamente, a causa della caduta o peccato originale, la natura diviene così come la conosciamo, caduta dall’eden nel regno della finitezza, del dolore, della morte.
(La prima natura o natura edenica sembrerebbe schematizzabile come in figura 1)
Il Sole assoluto crea vita fuori di sé attraverso i raggi di luce costituenti la prima dimensione creata (il punto o assoluto genera la retta o infinito) che, da lui scaturita, a lui torna come se estendendo all’infinito i Suoi raggi, questi finissero per tornare nuovamente a lui in virtù di uno spazio che in realtà è curvo.
Dalla lettura di Genesi si può notare come Adamo nella prima natura o natura edenica poteva disporre di tutto, senza essere sottoposto alla fatica e alla morte. Allo stesso modo la rappresentazione del raggio che si curva fino a tornare a se stesso designa un creato (universo) che appartiene interamente ad Adamo e in cui l’irraggiarsi di Adamo non vede una fine ma solo un inizio e una eternità, andando dalla vita alla vita.
Come infatti il Padre ha la vita in se stesso
così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso;
(Giovanni 5,26)
Io sono la porta: se uno entra attraverso di me sarà salvo;
entrerà e uscirà e troverà pascolo
(Giovanni 10,9)
L’unica prescrizione affinché questa sua vita eterna in una natura divina potesse essere, era quella di far sì che il logos (o azione autocosciente fondamentale) fosse presso Dio nel senso di ‘verso Dio’. Allo stesso modo uno solo era il frutto che egli non poteva toccare, il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.
“In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.”
(Gv 1,1)
Mangiare di tale frutto, stava a rappresentare l’atto autoreferenziale di poter e voler giudicare tutto, se stessi e gli altri, distinguendo ciò che è bene da ciò che è male o, in altri termini, arrogandosi il potere di decidere chi o cosa vada soppresso e chi o cosa è precisamente Dio, ciò che è essere e ciò che è in assoluto non essere.
Il pomo era dunque il criterio più alto attraverso cui l’autocoscienza creata poteva congiungersi a quella Divina e in questa vivere. Con un’allusione pittorica quest’unica indicazione rimanda all’indice di Adamo che, nel momento in cui è ‘verso Dio’ (presso Dio), congiunge questi a Dio come raffigurato ne “La creazione di Adamo” di Michelangelo.
Tale frutto rappresentava la capacita assoluta di giudizio. Capacità che in quanto tale doveva essere esercitata da colui che l’Assoluto è.
La creatura, inizialmente nata nello splendore dei raggi dell’assoluto, in virtù del proprio essere esistente e viva (autocosciente), può provare a brillare di propria luce nell’emanazione di raggi volti anch’essi a curvarsi ma per illuminare, a partire da se stessa, sempre e solo se stessa.
“Egli era una lampada che arde e risplende
e voi avete voluto solo per un momento rallegrarvi alla sua luce”
(Giovanni 5,35)
A proposito di suddetta circolarità autoreferenziale si pone però un problema di tipo ontologico, o per dirla con altre parole c’è un peccato originale, in quanto, non può essere dimenticata la differenza tra ciò che è assoluto e ciò che ha un’origine. Ciò che è originato è creato, non è dotato di aseità o assolutezza.
Ciò che è creato, non essendo perfettamente assoluto, nel suo espandersi nell’infinito non potrà superarlo nel tentativo di curvare i propri raggi verso di sè per alimentare se stesso a vita.
E’ possibile, infatti e in teoria, solamente estendersi internamente all’infinito secondo una retta (ideale) ordinata da noi e disordinata verso l’infinito ma che, di fatto, neanche ‘retta’ la si potrà chiamare in quanto l’irraggiarsi delle autocoscienze create ha, nello spazio-tempo, un inizio in un dato momento e una fine in un altro come un segmento AB interno a una retta.
A proposito di tale discorso è sicuramente di grande portata simbolica la
consapevolezza dell’impossibilità di superare la velocità della luce, unita al tempo limitato della vita mortale che non dà modo d’irraggiarci per tutto l’universo fino a tornare nuovamente a noi.
L’unico modo di abbracciare vivi l’infinito sembrerebbe quello di curvare lo spazio come solo l’assoluto (o conformemente all’assoluto) rende possibile fare.
Quella semplice quanto unica e assoluta azione di non porsi da giudici universali, non è tanto un divieto quanto piuttosto una indicazione atta a mantenere eterna e creaturalmente perfetta la natura edenica di Adamo.
Dio, l’Assoluto, aveva creato Adamo per amore. Lo aveva creato perfetto e vivo a sua immagine e somiglianza.
“Come infatti il Padre ha la vita in se stesso
così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso”
(Giovanni 5,26)
La perfezione della natura edenica dava ad Adamo la possibilità d’essere vivo eternamente, infatti Adamo nell’eden poteva appropriarsi di qualsiasi frutto, era presente e pienamente in qualsiasi parte del creato, abbracciava l’infinito della creazione così come Dio abbraccia l’assoluto, a sua immagine e somiglianza, e allo stesso modo lo faceva secondo la propria libera volontà.
Dio aveva creato Adamo per amore. Allo stesso modo Adamo poteva esistere presso Dio attraverso l’amore e così vivere pienamente, ad immagine e somiglianza, da “padrone dell’infinito”.
Riconoscere liberamente che solo Dio è assoluto e solo lui può perfettamente scindere il Bene dal Male significava appunto instaurare verso i propri fratelli nel creato un modello di relazione fondato e finalizzato all’instaurazione d’un amore universale.
L’azione fondamentale richiesta ad Adamo affinché questi potesse rimanere in uno stato assoluto o divino era quella di Amare.
Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
(Giovanni 13,34)
In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte". (Giovanni 5,1)
Riconoscere di essere stati creati per amore implica riconoscere innanzitutto il carattere cosciente e volontario (personale) di Dio, di contro alle concezioni secondo le quali Dio (o l’assoluto) è un ente impersonale o comunque privo di coscienza e volontà propria.
Tuttavia sembrerebbe non esserci solo due correnti di ‘pensiero’ a proposito dell’assoluto.
Infatti, oltre all’idea dell’assoluto personale e all’idea dell’assoluto impersonale ci sono anche teorie, per così dire, intermedie come ad esempio quella hegeliana.
A tal proposito mi permetto di riferire alcune critiche mosse all’hegelismo così come sono riportate su Wikipedia circa la voce ‘assoluto’
[…] La soluzione hegeliana darà tuttavia adito a numerose critiche da parte dei suoi contemporanei: secondo Schelling, ad esempio, il pensiero può stabilire soltanto le condizioni negative o necessarie (ma non sufficienti) perché qualcosa esista; la realtà effettiva e assoluta, invece, non può essere creata, determinata dal pensiero logico, perché nasce da una volontà libera e irriducibile alla mera necessità razionale. Le condizioni positive che rendono possibile l'esistenza scaturiscono infatti da un atto incondizionato e appunto assoluto che in quanto tale è al di sopra di ogni spiegazione dialettica, mentre Hegel intendeva fare dell'Assoluto proprio il risultato di una mediazione logica, che giungerebbe a consapevolezza di sé solo a conclusione del processo dialettico.
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« Per quanto riguarda Hegel, questi si vantava proprio di avere Dio come Spirito Assoluto a conclusione della filosofia. Ora, si può pensare uno Spirito Assoluto che non sia al contempo assoluta personalità, un essere assolutamente consapevole di sé? »
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(Schelling, Filosofia della rivelazione, Bompiani, 2002, trad. di Adriano Bausola, pag. 151)
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La posizione hegeliana fu contestata anche da altri pensatori, come Schopenhauer o Kierkegaard, apparendo ai loro occhi come la vana pretesa di comprendere razionalmente ciò che per natura può essere conosciuto solo ponendosi al di là della ragione stessa: ciò che Hegel aveva creduto di trovare era in realtà una sorta di «relativo» mascherato da assoluto.
Tuttavia, riconoscere il carattere cosciente e volontario (personale) di Dio sembrerebbe di per sé non autorizzarci a credere che ciò che Egli ha consapevolmente creato lo abbia creato per amore.
A proposito di ciò, oltre al tema inerente l’assolutezza di Dio, sembrerebbe fondamentale anche quello della libertà delle autocoscienze.
Dio, essendo assoluto, non ha bisogno di nulla.
Le creature, invece, hanno bisogno di tutto per poter loro stesse liberamente rinunciare a tutto.
L’assoluto, esente da necessità, in maniera cosciente e volontaria ha comunicato alle creature l’esistenza. In special modo a quelle autocoscienti l’ha donata a sua immagine e somiglianza rendendo queste capaci d’intendere e volere e dunque anche libere di rifiutare tale dono. Infatti il dono quand’è fatto con amore non è fatto per ricevere qualcosa in cambio, bensì al massimo viene suggerito, qualora si voglia, quale sia il miglior modo di conservarlo. Nel non-bisogno da parte di Dio di crearci, e nell’essere stati creati liberi, traspare quel carattere di gratuità e libertà che è proprio dell’Amore.
(continua a leggere. La caduta di Adamo)
A Sua immagine di Umberto de Palama - II parte
La caduta di Adamo
Il momento della caduta o peccato originale giustifica il termine diavolo attribuito all’immagine del serpente nel momento in cui l’essere umano, appropriandosi del ruolo dell’assoluto, si è praticamente diviso da Dio (diavolo da Diaballein, dividere) perdendo così il potere divino che “reggeva in cielo la sua terra”. D'altronde non poteva che succedere questo ad una creatura che ha voluto “fare l’assoluto”. Il creato che ha voluto caricarsi sulle sue spalle e reggere con la forza delle sue gambe ha finito per schiacciarlo. L’unico mezzo con cui il finito (creatura) poteva reggere l’infinito (creato) era il legame particolarissimo che questi aveva con l’assoluto.
“Egli era una lampada che arde e risplende
e voi avete voluto solo per un momento rallegrarvi alla sua luce”
(Giovanni 5,3)
Nel momento in cui la creatura autocosciente ha desiderato riconoscersi come “IL” punto, è avvenuta la separazione o caduta o peccato originale.. ontologico.
L’esistenza da questo momento in poi non era più quella di un eterno presente.
L’esistenza non andava più dalla vita assoluta (Dio) alla vita assoluta (Dio) insomma.
Il punto cui fare riferimento veniva posto in se stessi così come il fine supremo.
Purtroppo, come già detto, la creatura (finita) non poteva contenere il creato o universo dal quale essa stessa era contenuta. Esistendo in uno spazio enormemente più grande di lei e inevitabilmente insieme ad altre persone come lei, l’idea di trovare l’origine e la fine di tutto nella sua persona non poteva che essere l’origine della catastrofe più grande. Vale a dire la divisione tra l’uomo e Dio, tra l’uomo e gli altri uomini e dell’uomo da se stesso.
Non avendo più di quella partecipazione così viva dell’assoluto, vedeva la sua vita nascere e andare inevitabilmente verso la morte, l’ignoto, la strada del non ritorno.
(In Platone, qualcosa di analogo è stato motivo della separazione stessa in uomini e donne così com’è raccontata nel Simposio la completezza autosufficiente che rese gli umani androgini così arroganti da immaginare di dare la scalata all'Olimpo, e Zeus (non volendo distruggerli per non privare l'Olimpo dei loro sacrifici), separò ciascuno di loro in due metà, riducendoli a solo maschio e solo femmina).
Conseguentemente al peccato originale, la creatura passa dalla natura edenica eterna, perfetta o circolare, a quella mortale, imperfetta o spezzata.
Avvenendo la rottura tra assoluto e finito nasce anche l’opposizione tra i due. L’esistenza umana diventa la storia dell’opposizione tra Dio e uomo, vita e morte, piacere e dolore, conoscenza e ignoranza, essere e non essere, amico e nemico, conscio e inconscio etc.
Anziché la perfetta esistenza circolare, eterna in quanto va dalla vita alla vita in un tempo-senza-tempo, l’ente autocosciente, decidendo di porre se stesso quale fonte della propria vita e di assumere quale suprema meta da raggiungere e soddisfare sempre se stesso, fa sì che il logos della creatura non sia più ‘presso Dio’.
Allo stesso modo Dio non è più, puntualmente, presso l’uomo. Così “ego-centricamente” divisosi da Dio, della creatura gli è rimasto il carattere di finitezza ospitato in un creato infinito.
Anziché vivere il creato infinito in perfetta armonia o addirittura in suprema maestà (essendo presente e vivo in ogni punto in un tempo-senza-tempo, a immagine e somiglianza del suo creatore assoluto), la creatura si ritrova in una dimensione in cui, non essendo più unita a Dio, entra in un rapporto disarmonico col creato.
Il creato diviene in questo caso la sua prigione anziché il suo regno.
Anche il finito più piccolo o più interiore oramai gli sfugge essendo egli originariamente stato creato a immagine e somiglianza dell’assoluto. Ancora oggi, così come non esiste alcun microscopio o telescopio perfetto, non vi è nemmeno alcuna spiegazione del tutto esaustiva a proposito dell’interiorità umana.
E’ il momento della coscienza infelice.
Volendo rappresentare tale dimensione decaduta, anziché ad un cerchio assoluto, ci si troverà di fronte ad un segmento finito tra 2 poli assoluti (A-B) perfettamente conciliabili o separabili solo da un giudizio o azione altrettanto assoluta.
Tale segmento finito (A-B) esiste prigioniero e morente tra più o meno infinito
Trovandosi oramai di fatto dalla nascita in questa situazione di frammentazione, sembrerebbe possibile alleggerire almeno le ricadute di questo ‘peccato originale’ decidendo di non portare avanti la politica solipsista o infantile d’un io che “piange perché vuole essere l’Assoluto”.
Ciò non significa abbandonare i ‘sogni infantili e assoluti di gloria’, bensì abbandonare il tentativo infantile o assolutista di realizzarli, realizzandoli seriamente.
In altre parole, rendersi conto che l’atteggiamento fondamentale grazie al quale il finito può armonizzarsi all’infinito o addirittura all’assoluto comporta la pratica dell’amore universale e non quella del giudizio.
Infatti, già metafisicamente si è chiamati a riconoscere la differenza ontologica tra l’assoluto e il finito creato, ma anche nell’infinito (creato) bisogna aver coscienza del fatto che ogni uomo è indissolubilmente connesso ad altri suoi simili (ontologia relazionale) e che sono rispetto a lui per natura diversi in virtù dello spazio o del tempo o magari della particolare biologia di cui sono materialmente portatori.
La pratica dell’amore universale inizia nel sociale di ogni giorno, nel rapporto con il prossimo, universalmente, senza esclusioni per ‘pubblicani e prostitute’ o addirittura ‘nemici’.
Sviluppare una fratellanza universale nel sociale significa per il finito compiere un primo importante passo verso l’armonia con l’infinito, armonia che è dell’umano con l’umanità nell’umanità, armonizzazione con ‘l’altro’ che è premessa indispensabile all’armonizzazione con l’assoluto. Incontro con quell’ “Altro” che è realmente assoluta e perfetta alterità.
Un’analogia, questa volta tutta umana, a proposito dello stato edenico, della caduta e della redenzione, potrebbe vedersi anche nella storia di ogni essere umano così come essa naturalmente si presenta.
Il neonato nei suoi primi mesi di vita vive una particolare coscienza della realtà e di se stesso. Inizialmente, infatti, la situazione (almeno dal punto di vista del neonato) si presenta simile a quella descritta a proposito della circolarità perfetta della natura edenica. Pienamente nella placenta e poi sempre meno col passare dei primi mesi di vita, il neonato non sente una distinzione tra sé e l’esterno.. a suo modo vive in modo assoluto. Successivamente a ciò, crescendo, esce dal pensiero magico e scopre l’esistenza del proprio sé che è “altro” separato dall’ambiente esterno e dagli altri. Il passaggio è forte e non meno la nostalgia di quell’ esistenza assoluta nel liquido amniotico della placenta in cui era lui il centro assoluto di tutto.
Successivamente alla nascita, l’essere umano non può tornare a quello stato assoluto (intrauterino). Dovrebbe fingere che l’universo e gli altri non esistano, o addirittura crederci cedendo alle lusinghe delle supreme illusioni secondo le quali l’assoluto coincide perfettamente con lui (delirio, manie di grandezza). Quest’ultima cosa quasi necessariamente lo porterà o a schiacciare ogni altra forma di vita con violenza (magari fino a quando qualcuno riversandogli contro la stessa sua violenza gli darà la prova che lui non è Dio, uccidendolo) o a sopprimere la propria vita suicidandosi. La vita di Dio non può essere piena di stenti e limitazioni e poiché egli stesso è Dio, pur suicidandosi non sta facendo nulla di male contro se stesso.
In tal senso è possibile comprendere il valore di quei “sogni infantili” o “sogni di onnipotenza” che il neonato realmente vive ma che, in virtù della sua maturazione cosciente, ora non può più avere in modo incosciente. Se prima li ha vissuti “in piccolo, incoscientemente e per un limitato periodo di tempo”, ora può realizzarli.
Il riconoscere di non essere di fatto assoluti né metafisicamente né socialmente significa instaurare verso il prossimo un rapporto d’amore anziché di giudizio.
Noi possiamo superare molti dei nostri limiti nel momento in cui prendiamo coscienza di questi e agiamo di conseguenza.
Fondamentale è distinguere l’autocoscienza dalla coscienza. Per “coscienza” si intende la capacità di sentire così come anche agli animali, attraverso il sistema nervoso, possono ‘aver coscienza’ di un sapore, un odore o più in generale di una sensazione piacevole o dolorosa. Avere coscienza significa percepire, sentire. L’autocoscienza, invece, non è mera sensazione; coinvolge la mente e non solo il sistema nervoso. Avere autocoscienza significa, in breve, avere coscienza di sentire, piuttosto che, semplicemente, sentire. E’ ciò che permette l’unificazione delle varie percezioni frammentarie nell’unità identitaria della persona umana (capace di intendere e volere, anziché solo di sentire e agire in ordine alle meccaniche predeterminate dell’istinto).
In tal senso la creatura autocosciente è ad immagine di Dio in quanto libero e creativo.
L’essere autocosciente sa di esistere, l’essere cosciente esiste e basta. Non è un caso che le domande metafisiche a proposito del ‘senso’ siano caratteristiche della persona umana e non dell’animale.
Nel nostro universo tutti i sistemi seguono un “apparente” disordine progressivo (entropia); anche i sistemi biologici, sono caratterizzati da un sistema apparentemente entropico (vedi invecchiamento) ma perseguente finalità neghentropiche (accumulo di ordine per il conseguimento di finalità).
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Tempo sprecato per la cultura (wasted time for culture) |
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Guida al sito (Guide to the site) |
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Ogni giorno, quasi, il sito Vi propone qualcosa.
Quindi continuate a visitarlo.... se potete... regolarmente.
VOTATELO!!!!
IN CONTINUA EVOLUZIONE. |
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Le pagine (pages) |
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Secondo il titolo della pagina... l'argomento inserito è generalmente ... unico.
Ma le pagine non sono statiche. Variano con aggiunte.
N.B.
Il materiale inserito è scaricabile, ma ricordatevi di CITARE la fonte.
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