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Poesie, aforismi, filosofia, foto del mondo, concorsi, matematica, personaggi, UFO. |
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IL Don Chisciotte di Scaparro (di Michele Lasala - 18-05-2012) |
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Il Don Chisciotte di Scaparro: tragicomico frammento
della nostra esistenza.
(di Michele Lasala)
Si potrebbe partire da un quadro per cogliere la vera essenza del teatro;
il quadro è Las Meninias di Diego Velazquez [figura in basso], dipinto nel
1656 e oggi conservato al museo del Prado di Madrid.
Questo è un quadro che ha la forza di sconvolgere il normale percorso
della logica, nel senso che ci fa vedere quello che normalmente non
dovremmo vedere. Ritrae le damigelle d’onore che salutano l’infanta
Margherita di Spagna e suo marito il re; personaggi questi ultimi che
stanno fuori dal dipinto ma che noi possiamo vedere riflessi nello
specchio della parete di fondo del quadro. Il re e la regina stanno in uno
spazio che è anche il nostro e posano per essere ritratti dal loro pittore di
corte, Velazquez appunto, che noi nel quadro possiamo vedere ritratto a
sinistra. Quindi il vero soggetto di questo capolavoro non sono, come il
titolo suggerisce, le “meninias” , cioè le damigelle, ma il re e la regina.
Ma potremmo essere anche noi che da normali spettatori diventiamo,
contro ogni logica, veri soggetti del quadro, e Velazquez è lì pronto ad
immortalarci.
Questo ribaltamento avviene nella maniera più diretta nel teatro, in cui ciò
che viene raccontata è la vita di ognuno di noi, colta nelle più svariate
forme e sfumature; nel teatro infatti si ha quasi l’impressione di vedersi
riflessi in uno specchio, che mostri però quegli aspetti della nostra
esistenza che noi abitualmente non siamo capaci di scorgere.
Il teatro è uno specchio rivelatore, come quello del quadro di Velazquez,
capace di mettere a nudo la realtà anche se solo attraverso la finzione
scenica. Lo spettacolo di Maurizio Scaparro Don Chisciotte. Frammenti
di un discorso teatrale, messo in scena al teatro “Curci” di Barletta tempo
fa, mette ben in evidenza questa peculiarità del teatro attraverso le
avventure di Don Chisciotte, che qui altro non sono che puro pretesto
per “discorrere” intorno al vero tema della rappresentazione: il teatro.
Per Scaparro il teatro è la vita stessa, quella che si consuma
quotidianamente, quella delle persone più semplici; ogni nostra azione
è un’azione teatrale, ogni nostra parola pare essere stampata o suggerita
da un copione. La nostra è una recita che dura finché siamo in vita e
termina con la nostra morte. Un politico, un dittatore, un poeta, un artista
non sono altro che degli “attori” che interpretano ruoli più o meno
impegnativi, per cui si travestono, si mascherano, si truccano ed entrano
nella scena della vita per ingannare ed essere ingannati, per illudere ed
essere illusi in un gioco piacevole che si rinnova continuamente.
Questo è il teatro, pura illusione; quella stessa illusione che tormenta
l’esistenza del Don Chisciotte di Scaparro, che ha scambiato la realtà con
il sogno e vede cose che soltanto nella dimensione onirica possono verificarsi,
come mulini che diventano giganti minacciosi da combattere o come pecore
che diventano soldati da annientare, ammazzare, sconfiggere in nome di una
patria che non è mai esistita. Quella di Don Chisciotte è una vita vissuta nella
totale immaginazione; egli vede ciò che gli altri non vedono perché privi di
fantasia: è una specie di bambino abituato a proiettarsi nel mondo delle favole.
Tutto, per il «cavaliere dalla triste figura» è favola, ma egli non è in grado di
riconoscerla, non è capace di distinguerla dal mondo reale.
Per Don Chisciotte il bene e il male non si mescolano, semplicemente
si ribaltano. A riportarlo nella realtà è quello specchio che riflette la verità,
rappresentato dal volgare e popolano Sancho Panza.
Anche Sancho Panza “recita” il ruolo del rozzo, ma egli non cade vittima
dell’illusione o del sogno, si limita a rivestire il ruolo che gli compete, perché
il teatro della vita a cui è legato lo obbliga a fare questo.
Il tormento del nostro errante cavaliere è mitigato ma anche alimentato
dalla lontana e irraggiungibile Dulcinea; figura emblematica che vive solo
nella mente del nostro vagabondo cavaliere.
Dulcinea è in realtà una figura immaginaria, nata quasi per necessità e
usata in qualità di antidepressivo; ha la funzione di alleviare i dolori della
vita, comuni a tutti noi senza distinzioni. Ed ecco quindi l’amore inteso come
elemento necessario per la sopravvivenza; quando non c’è, lo si vorrebbe
avere in ogni modo, a costo di inventarlo.
Quello che il grande Maurizio Scaparro mette in scena ormai da diversi anni
(le avventure del suo Don Chisciotte cominciano a Spoleto nel 1983) è il teatro
della vita, dove noi spettatori siamo in realtà quegli attori che vediamo
muoversi e parlare nello “specchio” del palcoscenico.
Lo specchio del quadro di Velazquez è il medesimo usato da Scaparro
per narrare la finzione di ogni vita, di ogni uomo; ci mostra quello che
in realtà noi siamo: dei commedianti professionisti.
Ma nel teatro di Scaparro c’è un altro aspetto della vita che andrebbe
considerato ed è quello del “disinganno”, ossia della delusione, che è
perfettamente sottolineato dal suo Don Chisciotte, il quale ad un certo punto
si accorge di essersi illuso di tutto e di essersi allontanato dal vero, di avere
combattuto contro fantasmi e desiderato una donna immaginaria.
Si accorge di questo quando finalmente si sveglia dal lungo sonno della
follia e si ritrova faccia a faccia con la realtà, quella che per paradosso
è rappresentata da una compagnia di attori di teatro.
Adesso il «cavaliere dalla triste figura» capisce che la sua esistenza non
ha più senso; la verità lo ha troppo ferito e il disinganno lo ha portato
dritto alla morte. Il sipario si chiude e la recita di questo personaggio
termina nel peggiore dei modi. La verità che Don Chisciotte ha visto si è
mostrata nella sua nudità, guardandolo con gli occhi scuri e profondi
della morte.
Diego Velazquez, Las Meninias (1656); Madrid, Prado
referenze fotografiche:
http://readysteadyno.blogspot.it/2011/04/la-meninas.html
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MICHELE LASALA
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POESIA (di Michele Lasala)
Il bianco giglio nel campo
Non so se il costante mio affanno
chiamarlo potranno profondo sentimento
o se il bene che t'ho dato
fu seme scivolato su campo di cemento.
Non so se ancora ricordi
l'affetto che uniti ci tenne
in quelle primavere che si perdono ora
come il vento su remote scogliere.
Io non ho dimenticato
quelle mani sul mio corpo
quando lente cercavano
il bianco giglio nel campo.
Ma so che tu hai dimenticato
queste mani sul tuo corpo
cercare nel biancore
l'anima e l'amore.
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