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LA GERARCHIA e la ricerca del vero (a cura del CLSD - 16-10-2012) |
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OTIUM
LA GERARCHIA E LA RICERCA DEL VERO
Ringrazio il prof. Claudio Lanzi per l'autorizzazione a pubblicare su queste pagine elettroniche un suo prezioso contributo in ordine al con-cetto di “Gerarchia” com-parso su un recente numero della rivista, anch'essa elet-tronica, “Simmetria”, edita dall'Associazione Culturale omonima da lui stesso fon-data e diretta. Perché un argomento come la “Gerarchia”? La rispo-sta è semplice: perché è un tema di cruciale importanza ai fini della definizione del-la nostra Città Ideale. In qualsiasi organizzazione – ovvero in qualsiasi nucleo definito di persone che non sia strutturato secondo pura anarchia – è sempre, inevi-tabilmente presente una ge-rarchia, formalmente costi-tuita o meno. Tutto ciò non deve affatto preoccupare: non è questio-ne di sostanziare una visio-ne totalitaristica del mondo, ma semplicemente di tro-vare i fondamenti di un'otti-male attuazione della Città dell'Uomo. Così, se il concetto di Città Ideale è cosa del tutto pla-tonica (il che non vuole af-fatto dire “astratta”, né “immaginaria”...), la sua organizzazione è una que-stione propriamente aristo-telica. Come dire: teoria e pratica, o meglio: “specu-lativo” e “operativo”.
Stiamo trattando di quel preciso connubio ricono-sciuto da Giovanni Reale nel Platone e l’Aristotele posti al centro della scena nella Scuola di Atene di Raffaello. Altro che dicotomia: ma siamo in pochissimi ad ave-re ben compreso la portata di una simile rivoluzione.
M. M. (dall'Editoriale n. 41 della rivista Simmetria) www.simmetria.it “Gerarchia”, parola di facile indagine semiologica ma di difficile comprensione filo-sofica.
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Potremmo provare a ragio-nare partendo da hierarkhès (gerarca), colui che è àrkhò (capo) delle hieròs (funzioni sacre). A sua volta il capo, la testa, è come il princeps, cioè colui che viene prima. Ne hanno parlato in molti e anche il sottoscritto, in di-versi libri ma, una volta de-finita una possibile origine fonetica e semantica biso-gnerebbe cercar di com-prendere come funzioni la gerarchia, quali siano gli scopi, e quali gli attributi: insomma bisognerebbe of-frire delle istruzioni per l’uso, visto che delle ge-rarchie si è fatto un uso assai difforme nell’arco del-la storia, a volte esaltandole e a volte demonizzandole divergendo fortemente sulla loro utilità e funzione. Su questo argomento si so-no arrovellati i politici e i sociologi partendo dagli an-archici (cioè dai “senza ca-po”) a coloro che vorreb-bero trasformare la gerar-chia in una specie di orga-nigramma manageriale (ve-di in seguito) dove gli at-tributi siano definiti statuta-riamente. Più le gerarchie sono complicate, più sem-brano necessarie griglie che ne definiscano limiti e con-fini, come in uno spartito musicale che, non sempre, riesce a produrre armonia fra democrazie, oligarchie, tecnocrazie e plutocrazie, (tutti sistemi che, in modo differenziato, usano un si-stema gerarchico). Ne con-segue che, proprio in ra-gione della supremazia di una forma gerarchica sul-l’altra e della credibilità o meno delle gerarchie stesse, si compongono e scompon-gono le strutture sociali, si creano e si sfasciano i parti-ti, si formano e distruggono le alleanze e, addirittura, si costruiscono e si sfasciano gli stati o gli imperi.
SACRALITÀ E GERARCHIA
A questo punto vorrei rian-dare all’origine del termine “gerarca” che si riferisce e-splicitamente a qualcuno che dovrebbe essere alla te-sta di qualcosa di sacro.
Capo è una parola seria che abbiamo sempre più laiciz-zato e fatto diventare discu-tibile, quando non ridicola, con il passare dei secoli tra-sformandola in un capo con delega, in capo ad interim, in capo istituzionale senza poteri, in rappresentante delle istituzioni; insomma, in un gestore, separando il concetto di “capo” dall’e-sercizio delle sue funzioni nella gerarchia di cui do-vrebbe essere… a capo. In realtà, in una società sa-cra, il capo è il rex, il prin-ceps, il pontifex, il cuncta-tor, il giudice, ecc. E’ il centro della funzione sacra e il suo ius non dovrebbe essere discutibile. Riceve infatti il suo potere da una investitura sacra, da uno imprimatur (vedi testi citati in biblio), da una trasmis-sione esoterica, da un con-ferimento magistrale, da un riconoscimento plebiscita-rio per acclamazione, dalla vittoria laureata sugli op-positori: insomma, da qual-siasi cosa ma NON da una elezione democratica come oggi intesa. Questo non vuol dire che il capo, così “sacralizzato” e quasi santificato, non possa fallire o fare mucchi stupi-daggini (la storia è piena zeppa di capi, sacri e pro-fani, che hanno fatto fesse-rie a non finire) ma anche tali distorsioni fanno parte del sistema gerarchico e vanno accettate per quello che sono.
Infatti la funzione gerarchi-ca, sacralmente definita, fa assumere a chi comanda la responsabilità totale di ciò che fa. Invece, in un sistema in cui le responsabilità sono estremamente nebulose e differite… nessuno paga mai per i propri errori, nes-suno dice mai “ho sbagliato, scusatemi se potete”, nes-suno si assume il peso grave e le conseguenze delle sue scelte. La vigliaccheria che contraddistingue la nostra società democratica e pro-fana ha fatto si che, mag-giori sono le conseguenze connesse alle decisioni, minore è la responsabilità di colui che le prende (vedi il caso dei giudici o dei me-dici o dei partiti o dei sin-dacati, che hanno una “re-sponsabilità diluita” all’in-terno del sistema che fa spa-rire sia i meriti che gli errori dei singoli attraverso un complesso sistema di dele-ghe).
TIPOLOGIE DEL SISTEMA GERARCHI-CO
Il sistema gerarchico vero, sacro o profano che sia, può essere semplice o comples-so. Nell’antichità tribale era quasi sempre semplicissi-mo; con l’accrescersi delle popolazioni, e della neces-sità di controllo su spazi molto vasti è necessaria-mente diventato più com-plesso ma fino a pochi se-coli or sono ha sempre avu-to una natura semplice e de-finita: chi fa qualsiasi cosa ne risponde comunque al “capo”. Inoltre il sistema semplice non consente mai la latitanza del capo o la delega.
C’è da osservare che pro-prio in questi ultimi decen-ni, caratterizzati da una tec-nologia che divora con in-gordigia lo spazio e il tempo attraverso il web, il sistema gerarchico sembra stia nuo-vamente diventando sempli-ce; anzi, diabolicamente semplice, in quanto l’oli-garchia di pochissimi e po-tentissimi tecno-burocrati della finanza, governa sub-dolamente la società plane-taria, elargendo surrogati di democrazia attraverso la “li-bera” possibilità di espres-sione (ma sulla diabolicità della “rete” rimandiamo ad altri articoli). Abbiamo dunque visto che il sistema gerarchico sem-plice prevede un capo che accentra tutte le responsa-bilità e una serie di esecu-tori necessari allo svolgi-mento della “volontà” cen-trale. Graficamente tale si-stema ha una forma “a pet-tine”. E’ un sistema perfet-to, che non differenzia i gra-di e le funzioni. Tutti sono chiamati a fare tutto e ri-spondono solo al capo che definirà di volta in volta i compiti del momento. Ov-viamente questo sistema, per funzionare, richiede una enorme dinamicità del capo e una assoluta obbedienza della struttura che, nel pas-sato, era controllabile pur-ché spazi e tempi non fos-sero troppo estesi ma che oggi è una utopia assurda, a causa della vischiosa rete del continuo e frenetico fa-re, che ha completamente sostituito l’essere. Finito il capo, in un’utopica gerarchia del genere, finisce anche la struttura, salvo che il capo non nomini un erede (e tale opera, non è affatto detto che consenta di perpe-tuare la qualità del sistema)
Un sistema gerarchico complesso, invece, divide le responsabilità in “livelli” e in qualifiche. E’ il classico sistema profanamente im-portato dall’impresa moder-na, che ne ha fatto uno strumento d’efficientismo. Apparentemente funziona assai meglio del precedente, in quanto il “capo” ha più tempo per dedicarsi ai “massimi sistemi” e la struttura dovrebbe suddivi-dere i compiti e le respon-sabilità di gestione secondo competenze (assai spesso potremmo dire secondo ne-potismi, o raccomandazioni, o convenienze politiche, ec-c…) Per contro ne deriva che, più la rete delle responsa-bilità è complessa più sono facili “imboscamenti” di singoli individui, o di interi settori, che “sfuggono” alla gerarchia in quanto som-mersi dalla ridondanza di funzioni in parallelo (è questo il classico aspetto di alcune mega strutture socia-li, dove restare in ombra diventa a volte uno sport redditizio per ricevere uno stipendio senza far pratica-mente nulla o, peggio dove si creano interi settori di imboscati politici, ecc.). In questo secondo tipo di struttura il capo può, ad e-sempio, avere un “consiglio di ministri”; il consiglio può avere dei dipartimenti spe-cialistici; a loro volta dal consiglio possono scendere funzioni e responsabilità in quella che viene di norma definita “struttura ad al-bero” (a fine articolo ripar-leremo dell’albero nella sua forma sacra) che, laicamen-te, si esplicita tramite dia-grammi a blocchi.
Tale forma è indifferente-mente applicabile all’ammi-nistratore delegato con i suoi manager, al Papa con i suoi vescovi, al generale con i colonnelli, e a qualsia-si “struttura” esoterica o exoterica, definibile per funzioni di responsabilità differite. Purtroppo oggi noi constatiamo come il prin-cipio “laico” sia infelice-mente rifluito dal funziona-mento delle strutture civili a quelle religiose o sacre, e come i significati delle fun-zioni, perdendo la loro sa-cralità, siano precipitati dal-la gerarchia nella buro-crazia, assorbendo l’ele-mento peggiore di tale ter-mine ibrido: dal francese burocrazie che usa il bu-reau (ufficio pubblico molto gradito all’area giacobina) coniugato pretestuosamente al kratos (potere). L’insie-me parla da sé e non richie-de commenti.
LA RICERCA DEL VERO IN UN SISTE-MA GERARCHICO
Mi sono concesso la pre-cedente incursione nel mon-do della ottimizzazione del-la ”organizzazione” azien-dale (di cui ho fatto parte in gioventù) perché forse ci aiuta a comprendere come un principio sacrale possa essere usurpato e, in corso d’opera snaturato, metten-dolo a servizio dell’utile, del profitto, dello “sfrutta-mento delle risorse” (che a volte può essere una buona cosa, altre volte può coprire le peggiori nefandezze).
Torniamo perciò alla strut-tura sacra che dovrebbe ba-sarsi su principi di trasmis-sione ben diversi da quelli di una struttura profana. Senza voler entrare in cavil-li, anche se condivisibili, di tipo “guénoniano”, indichia-mo per ora con il termine struttura sacra un insieme gerarchico spirituale, colle-gato al sacrum, all’inviola-bile, al perenne, e di con-seguenza al Vero. Sono ter-mini che una mente razio-nale può considerare con-traddittori. Come fa un qualcosa di inviolabile (e perciò spesso anche d’invi-sibile ad occhi profani) ad essere vero? Alcuni pensano che il Vero debba essere come una sca-tola: una volta aperta e con-trollati i contenuti, “voilà”, il Vero è tutto li, pronto ad essere consumato, oppure difeso o rubato. Non è così. Tutti gli autentici ricercatori del Vero ci raccontano co-me tale espressione sia si-mile ad un pozzo senza fon-do. Il Vero è l’Abisso, nel quale sprofonda l’anima di qualsiasi ricercatore. Il Ve-ro è l’incontro con l’incom-mensurabile, e pretendere che il medesimo si riduca ad un commensurabile, anzi, ad un commensurabile a mi-sura della nostra mente re-lativa è veramente un atto di presunzione senza pari.
E’ evidente che in questa ricerca del Vero esiste uno iato, un passaggio del mar Rosso, o meglio, un ponte invisibile e sottile nel quale ogni ricercatore, mitico o storico che sia, da Galvano a Galad, da Lancillotto a Dante, da Enea ad Apuleio, ha una terribile paura di avventurarsi. Da quel ponte si precipita sul serio. La selva selvaggia non è come una gita in campagna. Tanto è amara che poco più è morte ci dice uno che se ne intende. Ma si entra proprio da li; non si entra dal Para-diso, e neanche da Purga-torio. Si entra dall’Eterno Dolore, dalla parte della perduta Gente: dai terribili significati che hanno tali espressioni. Anche i grandi cercatori pre-cristiani non hanno potuto evitare tale passaggio (Ulisse, Enea, ec-c…) e anche se tale viaggio viene raccontato in chiave mitica, il cammino simbo-lico è identico a quello dan-tesco. Ora la sottovalutazione de-gli straordinari significati di tale passaggio (che gli al-chimisti chiamano a volte nero più nero del nero e che specificano come non si esaurisca in un solo viaggio ma che possa ripetersi più volte nel corso dell’esisten-za) rappresenta la caduta di ogni pretesa di salvezza, la fine di ogni ricerca nella pa-lude della presunzione. Vuol dire saltare (nella fan-tasia, ovviamente, perché nel cuore ciò non è possi-bile) la Gerarchia del Sa-cro. Ma, si domandano alcuni (e oggi lo fanno soprattutto i teologi) perché mai il Sacro dovrebbe essere Vero? E, senza entrare in un argo-mento filosoficamente e re-ligiosamente sconfinato, ci limitiamo ad osservare co-me tutti coloro che hanno deciso di affrontare questo tema si sono avventurati su due strade distinte: - quella dimostrativa (di-ciamo di tipo aristotelico) nella quale le categorie e i sillogismi hanno sempre portato a soluzioni alterna-tive fra loro, ben strutturate e parallelamente valide, nel-le quali la dialettica ha pro-vocato contrasti e diatribe a non finire causate dalla re-latività del pensiero e dalle indefinite soluzioni possibili ad uno stesso problema.
- quella metafisica, il cui antesignano in occidente è sicuramente Platone, dove il contatto con il sacro avvie-ne proprio attraverso quel ponte stretto di cui non è possibile parlare (di cui for-se è possibile… cantare, di-rebbero gli orfici), perché il Vero, secondo i metafisici non è “traducibile” se non attraverso l’esperienza so-vra-razionale che se ne fa. E’ assai strano notare come lo scetticismo e il relativi-smo scientista nei confronti del Sacro si riversi proprio contro ciò che, in chiave religiosa, veniva una volta considerato Vero e Assoluto (cioè non relativo). Infatti, il senso della religiosità e della trascendenza, con la sua tensione verso l’Asso-luto, appoggiandosi a qual-cosa che indubbiamente sfugge alle statistiche e alla speculazione scientifica, crea sospetti di “oscuran-tismo”. Non soggiace, in-fatti alla dimostrabilità; per-ciò a volte provoca reazioni violente dei “razionalisti ad oltranza”, feroci quanto quelle di coloro che asseri-scono il primato di una fede. A nostro avviso entrambi (i razionalisti e i fideisti ad oltranza) non si differenzia-no affatto né nei comporta-menti né nella struttura pa-rafilosofica portante il loro “corpus” dottrinale. Infatti l’elemento che determina la strenua difesa della dottrina è assai spesso la paura.
Questo è un termine che inferocisce tutti gli oltranzi-sti che, per principio, ov-viamente… non hanno pau-ra. In realtà temono moltis-simo di perdere le certezze, i supporti, il “credo rela-tivo” al quale hanno attri-buito la funzione della “ca-sa”, del rifugio della mente e dei sentimenti. Hanno paura di cambiare prospet-tiva, di guardare le ragioni dell’altro, di entrare nel profondo delle loro stesse motivazioni e di scoprirle fragili. Hanno, cioè, paura del Vero, o meglio che il Vero Assoluto possa essere un pochino diverso dal Vero Relativo al quale si sono dottrinalmente ed emozio-nalmente abbarbicati. Come altre volte ho cercato di mostrare, l’apparato ge-rarchico della chiesa cattoli-ca moderna, invece di man-tener stabile l’approccio metafisico e mistico alla trascendenza, utilizza sem-pre più spesso, nelle sue pastorali, il metodo della scienza relativista e sta-tistica, “laicizzandosi” in maniera esasperata fino a creare delle burocrazie com-portamentali e inquadrare la dottrina in una specie di sistema a “quiz” (andate in parrocchia a controllare… e, se se siete tradizionalisti, inorridite; se siete seguaci del Vaticano II, compiace-tevi). Dal che si scorge come la ricerca del Vero possa es-sere affannosamente intesa in modi diametralmente op-posti. Quella sacrale, erme-tica e mistica è una ricerca per coincidenza, per con-templazione, per visione, per esperienza spirituale, per estasi, o anche per espe-rienza materiale, ma soprat-tutto per ascesi, mai sepa-rata dalla conoscenza spiri-tuale qualitativa.
Quella “scientifica” è ormai prevalentemente statistica, logica, dimostrativa, per de-duzione o per sperimenta-zione sensibile e strumenta-le quantitativa. Come sappiamo alcuni attri-buiscono assoluta credibilità alla prima, altri alla secon-da.
LE PICCOLE STRUTTURE TRADIZIO-NALI
In tale contesto diventa as-sai importante spostare ed estendere il concetto gerar-chico alle poche residue strutture spiritualmente va-lide che ancora difendono o conservano una tradizione degna di questo nome. Fino a qual punto una salda e corretta gerarchia può contribuire alla ricerca del Vero, della liberazione e della salvezza? Ovviamente dobbiamo dare per scontato che tale ge-rarchia sia attribuibile ad un ordine spiritualmente legit-timo e corretto: il che spes-so vuol dire ad un “capo” credibile. Senza questa pre-messa il resto ha ben poco senso ma, se tale colle-gamento è solido, riteniamo che soltanto attraverso una efficace struttura gerarchica l’ordine possa essere man-tenuto con efficienza e ri-spetto per quanto accade in ogni manifestazione della natura. Non parlo soltanto di gerarchia esterna (che pure è necessaria) ma di gerarchia dei cuori.
In una struttura sacra (pic-cola o grande che sia) il trasferimento dei principi dottrinali e gerarchici non deve avvenire attraverso u-no schema laicamente bu-rocratico ma attraverso il ri-conoscimento, sia razionale che, soprattutto, sovrarazio-nale della rete “mistica” che sovrintende la struttura. Compito del neofita, del-l’iniziando, o comunque di colui che proviene dall’e-sterno è cercare di ricono-scere interiormente, più ra-pidamente possibile, la ge-rarchia esteriore e di amar-la, rispettarla e sostenerla. Abbiamo anche detto in altri scritti come tale “ri-conoscenza” non sia così semplice, soprattutto perché il mondo delle “bufale ini-ziatiche”, filosofiche e spi-rituali non è mai stato così esteso e potente come ai nostri giorni. Ma, una volta che tale rete di gerarchia metafisica ab-bia acceso qualche barlume di speranza nel cuore di chi cerca, vanno seguiti virtuo-samente i principi utili al-l’approfondimento del viag-gio appena iniziato. Una struttura tradizionale e sacrale, non può separare il perseguimento virtuoso dal perseguimento realizzativo. Questo non vuol dire sol-tanto che la struttura deve avere un’etica solida ma che il principio sovrarazionale che determina le relazioni gerarchiche deve risalire al-la radice delle Virtù, analo-gamente a quanto raccon-tano l’ineffabile pseudo Dionigi, il grande Filone d’Alessandria o, in maniera assai esplicita, lo stesso Dante.
Attenzione: la lettura di tale scala gerarchica è di tipo anagogico; se ci si impelaga nella pretesa di definire es-clusivamente tramite leggi, riti, liturgie e “gradi” il buon andamento di una struttura spirituale, in breve, la stessa, si trasformerà in una torre di Babele o, ancor peggio, in una setta do-minata dalla sete di “potere” e dall’arrivismo di alcuni; e questa cosa accomuna strut-ture grandi e piccole, nate con pretese, per così dire, spirituali ed ecumeniche e trasformatesi rapidamente in aspirazioni materiali ed economiche. Eros e Fanes ed Hermes sono i principi di una vera armonia gerarchica spiritua-le; in chiave cristiana, po-tremmo dire l’Amore, la Sa-pienza e lo Spirito.
LA GERARCHIA E IL RISPETTO
In una struttura spirituale gerarchicamente corretta il rispetto per gli “anziani”, che oggi è andato decisa-mente in obsolescenza, è un elemento cardine. Non è detto che all’anzianità cor-risponda necessariamente u-na gerarchia cardiaca altret-tanto profonda, ma nell’an-ziano c’è un patrimonio ir-rinunciabile, che oggi dà quasi fastidio riconoscere: l’“esperienza”. Rispettare l’esperienza vuol dire ri-spettare il Dolore, la Fatica e l’Amore che, chi ha e-sperienza, ha investito nel suo cammino. Se vogliamo che in un futuro la nostra esperienza venga rispettata dobbiamo innanzitutto ri-spettare chi ne ha fatta più di noi. Questo non vuol dire de-ferenza “fantozziana”, ma ascolto, disponibilità e, so-prattutto, amore e obbe-dienza. I collegi monastici, così come le confraternite dei mestieri, così come quelle guerriere, impronta-vono le loro regulae su tali principi.
Dal punto di vista gerar-chico tale ragionamento si riferisce soprattutto ai rap-porti con il capo. Se abbia-mo riconosciuto lo ius del capo, potremo e dovremo anche accettare le sue de-faillances. Il momento che non riconosciamo più il suo ius (o per indegnità del capo medesimo o per nostra i-gnoranza) lo abbandonere-mo, con dignità e rispetto. Le fedeltà ad oltranza, quando non si capisce più a cosa si è fedeli, diventano “tribali”( nel senso asfittico del termine e non in quello di una sacra antropologia) e si sviluppano per difendere la paura di perdere l’idea (o i privilegi) acquisiti e non la Verità che temiamo di trovare. Tutto ciò potrebbe sembrare ovvio; in realtà non è così facile capirlo, proprio a causa delle prevenzioni che ognuno di noi si porta dietro e dello sfacelo animico nel quale ci dibattiamo. L’anziano, in realtà, porta su di se il “peso” del Vero. E ciò indipendentemente dal fatto che abbia raggiunto o meno una totale o parziale chiarezza della mente o la liberazione interiore.
Dicono i saggi che il peso della Verità sia terribile anche se meraviglioso, man mano che uno ne prende coscienza. Mi permetto di ricordare uno dei più “filo-sofici” complessi e meno studiati “santi” cristiani: San Cristoforo che, nell’at-traversare le insidie del fiu-me dell’esistenza, prende coscienza del peso enorme della Verità e della Via che lui porta sulle spalle e che, nella leggenda, è rappre-sentata da Gesù “bambino” che si rivela pesante come un macigno e rischia di affogarlo. Mica è facile sopportare la Verità, su se stessi, sulla Vita, sulla Via, sulla Morte. E’ molto più facile baloc-carsi con una verità surro-gata… a nostra immagine e somiglianza, ancor meglio qualora ci venga sommini-strata ex cathedra. Ma la bellezza, la gioia e la liberazione (come spiegano in via simbolica tanti miti, da quello di Er, a quello della Caverna platonica) derivano proprio dall’accet-tazione del peso della Ve-rità: l’unico peso che rende equilibrata la bilancia della giustizia sublime (che gli e-giziani rappresentavano così ieraticamente nella bellis-sima Maat alata, e che i cri-stiani hanno deposto nella spada e nella bilancia di Michele).
LA SCALATA ALL’ALBERO DELLA VE-RITÀ
Può esistere una Verità che non sia Libertà? Nella chia-ve ieratica che stiamo cer-cando di proporre noi, ov-viamente no. La Verità, co-me abbiamo accennato nelle righe precedenti inseguen-do, anche se sbrigativamen-te, la metafisica neoplatoni-ca, si raggiunge entrando nella selva delle paure, nel-la selva delle presunzioni (o delle illusioni) e, di conse-guenza, degli attaccamenti: in altre parole, nella selva dell’Ego e non soltanto nel-la selva delle nostre biblio-teche. E’ lui, il famosissimo e misconosciuto “ego” quel-lo che ha veramente paura di morire, di perdere, di perdersi, di non ritrovare quel personaggio che ha sempre identificato con l’immagine (appunto: i-mago) che vede allo spec-chio. E’ lui che non ha nes-sun interesse per la Verità. E’ lui che vuole certezze e abitudini ideali e che le vuol spremere tutte dai frut-ti dall’Albero della Cono-scenza. L’albero della Vita e del Vero mette paura, co-me ogni axis mundi… che si rispetti e, nelle leggende artiche, ci salgono solo gli sciamani! Se volessimo spingerci oltre dovremmo parlare della Verità insita nell’Albero della Vita, cioè nel primo dei due alberi coesistenti nel Paradiso biblico; anzi nella riunificazione di quest’albe-ro con quello della Cono-scenza (ma per approfondi-menti v. bibliografia). Coloro che, per fortuna o per disgrazia, hanno deciso di riposare all’ombra di quell’albero dove anche le saghe nordiche appendono le rune danzanti, dovranno prima o poi tentarne la sca-lata. E come apparirà sicu-ramente evidente a chiun-que abbia un minimo di confidenza con gli apparati simbolici arcaici, sopra quell’albero si sale gerar-chicamente seguendo un processo inverso rispetto al-le “scalate” che la maggior parte di noi è abituato a prendere in considerazione.
L’Albero di cui parliamo, e che interessa il cercatore dal cuore puro, ha il tronco e le radici in cielo e non nella terra. Per cui, noi, lillipu-ziani scalatori, invece di tendere ad inseguire il mol-tiplicarsi del “fogliame” mentale e dottrinale, invece di disperderci per “li rami” della conoscenza umana, della forza razionale o della forza bruta (che a volte si assomigliano), dobbiamo effettuare una rapida con-versione operativa. Si tratta di perdere e di spogliarsi progressivamente degli abiti mentali acquisiti, di cercare il tronco misterioso del-l’albero purificando il cuore e le idee, andando alla ri-cerca della terra celeste, quella che i Crociati e i Mu-sulmani chiamavano Terra Santa. E’ solo una volta che si sia percorso integralmente, in-versamente e gerarchica-mente tale tronco (come re-citano sia la cabala che le dottrine ermetiche), che si troveranno le vere radici che traggono linfa dallo spi-rito, e che inizierà un nuovo tipo di conoscenza. Tutti oggi, ma proprio tutti, dichiarano egoicamente la guerra all’ego. Ma la po-tenza di tale mistero è real-mente grande e proteiforme, e per risolverlo non basta pensare di essere nel cam-mino. Bisogna entrarci sul serio nel mezzo del cammi-no (proprio nel mezzo) dalla porta della “Città dolente”. Ciò significa che, nella co-scienza illuminata, s’infran-gono naturalmente le sbarre dell’ego e quindi colui che si realizza …non ha rag-giunto proprio nulla ma, finalmente si è fermato e si è fatto raggiungere dallo Spirito. La Verità spirituale è ve-loce, vola, ed ha le stesse ali della Salvezza, ma noi scap-piamo terrorizzati quando minaccia di prenderci. La gerarchia, in tale con-testo, educa alla pazienza ed al rispetto delle sette virtù classiche, o quanto meno alla verifica della consi-stenza delle medesime nelle priorità di ognuno. Tale gerarchia, magico or-dinatore delle le priorità se-condo un criterio metafisi-co, orienta l’anima e la pre-dispone all’ascolto. Un sistema gerarchico pri-vo di un ordinamento vir-tuoso e celeste, che preceda qualsiasi ordinamento uma-no, non ha alcun senso. Le leggi stesse, del sistema ge-rarchico devono avere una ossatura virtuosa nella quale l’anima del praticante ri-conosca la trasformazione del cuore e non l’esalta-zione stentorea di un prin-cipio più o meno esaltante o gratificante per la psiche. Ecco perché la “discus-sione” o il “dibattito” in un sistema gerarchico come noi lo intendiamo (e come ad e-sempio era quello pitago-rico) erano ritenuti strumen-ti inutili e sterili.
Prima bisognava imparare ad ascoltare (scienza, come tutti sappiamo, difficilis-sima), poi a comprendere (siamo già oltre l’apprendi-mento meramente raziona-le), poi a innamorarsi del sistema virtuoso che sotten-de la gerarchia (e questo riguarda i pochi che hanno compreso), e infine si po-teva esprimere e toccare l’idea embrionale. Tale idea bambina ha (per coloro che ne capiscono qualcosa) sette sorelle maggiori (le Virtù) tre madri (le Grazie); è nata da un …colpo di luce che ha “ucciso” il vecchio padre, vittima del desiderio, del bisogno, del pregiudizio e del caos. Ecco perché un sistema ge-rarchico deve partire dal-l’insegnamento generoso e consapevole, dalla schola philosophica dove, prima di apprendere le leggi si ap-prendano le virtù. Si ap-prendano attraverso la bel-lezza e l’umiltà e non at-traverso lo sforzo e la su-perbia. Lo sforzo e la superbia han-no sempre causato ernie fastidiose, e non hanno mai favorito l’apertura della mente e del cuore.
CLAUDIO LANZI
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Bollettino n° 75 - on-line
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