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Le parole silenti di Dio (di Michele Lasala - 17-06-2012) |
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Le parole silenti di Dio.
Uno sguardo sulla lirica di Domenico Ruggiero.
di Michele Lasala
Nel Novecento assistiamo a un radicale mutamento della concezione estetica della poesia rispetto alla concezione che ha segnato i secoli precedenti. La poesia del Novecento è una poesia sintetica, rapida, immediata; ma soprattutto libera. Libera dalle regole ferree della metrica, libera da ogni classicismo, libera dall’idea di costruire versi più o meno eleganti, come nella lirica di Leopardi – si pensi al componimento La vita solitaria: «La mattutina pioggia, all’or che l’ale / battendo esulta nella chiusa stanza / […]» - ma libera soprattutto di parlare di sé, senza dover esprimere altro al di là del suono e del significato della parola più pura.
Per comprendere questo mutamento avvenuto nella letteratura, basti guardare a ciò che è accaduto nella pittura a cominciare dalle grandi avanguardie dei primi del Novecento, e in particolare a cominciare dall’astrattismo. La pittura astratta – nata intorno al 1910 con Kandinskij – non ha più come referente la natura, il mondo fisico, sensibile; ma una dimensione altra: quella del pensiero. È una pittura tutta concettuale, intellettuale, addirittura spirituale, come la intende lo stesso Kandinskij, che non a caso scriverà un’opera dal titolo a dir poco eloquente: Lo spirituale nell’arte (1912), vero e autentico manifesto dell’astrattismo.
Dall’astrattismo in poi l’arte, e in particolar modo la pittura, ha raccontato se stessa attraverso forme geometriche più o meno regolari (da Klee a Mirò), macchie, linee (Mondrian), sgocciolature di colore (da Pollock a Turcato) eccetera.
In questo lungo percorso, la pittura si è via via liberata da ogni canone di bellezza, da ogni classicismo, da ogni naturalismo, da ogni realismo. Essa parla di sé e nella sua immediatezza giunge al pensiero. Diventa puro colore, pura forma, pura idea.
La poesia grossomodo segue nel XX secolo un percorso analogo a quello della pittura astratta, e già con l’ermetismo avvertiamo un senso di leggerezza formale, un senso di abbandono di ogni forma di classicismo.
I poeti ermetici operarono un tentativo di “reinventare” le parole sottraendole all’usura delle associazioni più ovvie della sintassi e delle versificazioni tradizionali, e si volsero alla ricerca della metafora inedita, originale e ancor più del rapporto analogico, capace di accostamenti, e della sinestesia, che metteva in relazione fra loro impressioni logiche e sfere sensoriali diverse.
Questa nuova concezione della poesia la avvertiamo in Montale, uno dei maggiori rappresentanti dell’ermetismo. Nella poesia I limoni, contenuta nella nota raccolta Ossi di seppia del 1925, Montale si rivolge a un suo possibile lettore, si rivolge a qualcuno di cui non conosciamo né il volto né il nome: «Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io, per me, le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti tra gli alberi di limoni […]».
Si avverte da questi versi una presa di distanza da quelli che sono i “poeti laureati”, ovvero i poeti dotti che costruiscono poesie facendo uso di termini oscuri, poco comuni, e non di rado ricoperti da uno starato di polvere. Montale ama invece le parole della strada, le parole che usiamo tutti i giorni e che dicono della nostra autenticità di uomini.
Improvvise immagini, suoni lontani, sensazioni fugaci si mescolano nella memoria di un altro grande poeta e scrittore del Novecento: Dino Campana.
La limpidezza della lirica di Campana si avverte già nella poesia La chimera: «non so se tra roccie il tuo pallido / viso m’apparve, o sorriso / di lontananze ignote / fosti, la china eburnea / fronte fulgente o giovine / suora de la Gioconda: / o delle primavere / spente, per i tuoi mitici pallori / o Regina o Regina adolescente […]».
Per i poeti ermetici la parola è tutto, perché è in essa che si condensa un pensiero, un ricordo, un’emozione, un volto lontano. Ed è per questo che un poeta tedesco come Gottfried Benn scriverà una poesia dal titolo Una parola: «una parola, una frase: da cifrati / segni scoperta vita emerge, fulmineo senso: / ristà il sole, tacciono / le sfere, tutto in quella si raddensa. // Una parola: un bagliore, un volo, un fuoco, / un vampo, di stelle cadenti un brillio. / Poscia di nuovo sterminato buio, / nel vuoto spazio intorno al mondo, e all’io».
Ed è proprio questa concezione che affiora dalla lirica del poeta tranese Domenico Ruggiero, così come affiorano le concezioni liriche di Montale e di Campana.
Per Domenico Ruggiero, la parola ha la forza di esprimere tutto il significato dell’Essere, tutto il senso dell’esistente, tutta la verità dell’Assoluto e del niente.
Suggestioni, immagini, emozioni, fulminei ricordi diventano scrittura; si raddensano in rapidi versi che dal buio della coscienza sgorgano e fluttuano nella luce del mondo per comunicare remoti messaggi di speranza ed esprimere il delicato e agrodolce “sapore del niente”, espressione, quest’ultima che ritroviamo in uno dei versi del poeta.
Il senso di tristezza e di malinconia per le cose che finiscono e muoiono si intuisce nella poesia Illusione: «Illusione / dolce e triste chimera // che sorgi al mattino / e muori alla sera. // Vivi soltanto un giorno // sepolta dai raggi di sole / che vanno a dormire.// Domani / nascerà tua sorella // figlia della stessa canzone».
Per Ruggiero l’illusione ha un duplice volto: quello della dolcezza e quello della tristezza, ed è per questo che essa è simile a una chimera. È qualcosa che parla la lingua della menzogna, della falsità e dell’inganno.
Un giorno vive, l’illusione, come le rose della canzone di De André, e muore sepolta sotto il manto scuro del firmamento. Ma come Fenice, rinasce nel nuovo giorno per continuare a dar senso alla vita caduca d’ogni uomo. Speranza, amore, attesa sono illusioni che muoiono e rinascono nel profondo dell’anima e fanno vibrare le corde del cuore.
In un’altra poesia, Il fiore, Domenico Ruggiero vede, nella dimensione feconda del pensiero di un fiore, la certezza che alimenta il suo desiderio di vita: «Sono costernato / perché vedo le deformità / di ciò che vive // delle gambe dell’uomo che si aprono e si chiudono // delle sue mani che ciondolano // della testa che si muove / da un lato all’altro // eppur vive / convinto di essere perfetto / […] / l’unica cosa che mi fa sopravvivere // è la certezza / di una dimensione feconda // del PENSIERO DI UN FIORE // che ha la purezza / dello spirito // della santità // del concepimento assoluto. // Ed è questo / che mi dà la forza di lottare // di esercitare / la professione del pensatore // di dire: sono ancora VIVO».
La poetica di Ruggiero, ricca di metafore, di immagini, di impressioni, di simboli, e sovente anche ricca di anafore, nasce esattamente come nascono i quadri dei pittori macchiaioli dell’Ottocento. Non c’è una struttura di base, non c’è un “disegno preparatorio”: c’è soltanto la vibrante e vivida immagine impressa sulla pagina bianca, come luce impressa su pellicola sensibile. Leggere la lirica di Ruggiero è penetrare nel profondo della nostra coscienza e del nostro essere, con la speranza di (ri)trovare il volto più autentico del nostro io che riflette la purezza e il candore del volto di Dio.
Wassily Kandinsky
Paul Klee
Joan Mirò
Jackson Pollock
Giulio Turcato
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